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Yellowstone, il Grande Romanzo Americano
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Può una serie televisiva, o anche un film, ambire al titolo di Grande Romanzo Americano come i classici della letteratura statunitense Rip Van Winkle (Washington Irving, John Wiley & Sons, 1819), The Last of the Mohicans (John Fenimore Cooper, H. C. Carey & I. Lea, 1826), Moby Dick (Herman Melville, Harper & Brothers, 1851), Huckleberry Finn (Mark Twain, Chatto & Windus, 1884) o Blood Meridian (Cormac McCarthy, Random House, 1985)?

Personalmente credo di sì. Il cinema e la serialità d’autore sono narrazioni per immagini, ma pur sempre narrazioni, come romanzi o racconti. Già ipotizzavo il valore di The Walking Dead (Darabont/Kang, 2010-in corso) come esempio tra i più riusciti di “grande racconto americano” (//www.filmtv.it/post/31294/the-walking-dead-ovvero-il-grande-racconto-americano), in termini di temi, figure e moduli narrativi di base, ma con Yellowstone (Sheridan/Linson, 2018-in corso), possiamo davvero scomodare il titolo di Grande Romanzo Americano e applaudire un autore di tutto rispetto come Taylor Sheridan. Apparso come attore in serie tv come Veronica Mars (Rob Thomas, 2004-2007) e Sons of Anarchy (Kurt Sutter, 2008-2014) è diventato uno degli sceneggiatori e registi più apprezzati degli anni 010. Sue infatti sono le sceneggiature di Sicario (Denise Villenueve, 2015), Hell or High Water (David Mackenzie, 2016) e Soldado (Stefano Sollima, 2018), oltre a quella per Wind River (2017) da lui anche diretto e che gli è valso il premio come miglior regista a Cannes nella sezione Un Certain Regard. A questi prestigiosi titoli, si aggiunge anche Yellowstone che conferma, oltre ad una scrittura molto personale e classica, anche un buon talento registico tendente all’eccellenza: immagini limpide e pulite, chiarezza e linearità narrativa, tocco eastwoodiano per l’essenziale.

1.Cos’è, quindi Yellowstone? E ancor prima, cos’è il Grande Romanzo Americano? Questo termine, altisonante e timoroso, è stato coniato dallo scrittore John William DeForest come titolo per un suo articolo apparso il 9 febbraio del 1868 su The Nation, la più antica rivista statunitense tra quelle ancora in attività (http://utc.iath.virginia.edu/articles/n2ar39at.html). Fin dall’inizio del suo articolo, DeForest indica come Grande Romanzo Americano «il ritratto delle emozioni e dei comportamenti ordinari dell’esistenza americana» proponendo Uncle Tom’s Cabin (Harriet Beecher Stowe, John P. Jewett & Co., 1851) come il romanzo che più si avvicinava all’identità americana, identità, si badi bene, che nel 1868, a soli tre anni dalla fine della Guerra di Secessione era ancora in via di definizione, anzi, non era ancora ampiamente avvertita né intesa; per contro, DeForest non accetta come rappresentazione di tale ricerca identitaria né John Fenimore Cooper né The Scarlett Letter di Nathaniel Hawthorne (Ticknor, Reed & Fields, 1850). Oltre ai titoli citati poco sopra, andrebbero tenuti in considerazione anche i romanzi visionari e goticheggianti di Charles Brocken Brown e gli incubi di Edgar Allan Poe, per non parlare dei diversi titoli questionati da Emily Temple in A Brief Survey of the Great American Novel(s). Do We Need The G.A.N.? Why Do We Keep Looking? (Literary Hub, 2017; https://lithub.com/a-brief-survey-of-great-american-novels/ ) tra cui The Great Gatsby (Francis Scott Fitzgerald, Charles Scribner’s Sons, 1925), The Grapes of Wrath (John Steinbeck, The Viking Press, 1939), Lolita (Vladimir Nabokov, Olympia Press, 1955), fino ad American Psycho (Bret Easton Ellis, Vintage Boooks, 1991) e molti altri, dato che la scrittrice americana, e redattrice di Literary Hub, raccoglie ben 24 titoli che, dal 1868 ad oggi, sono stati indicati come papabili all’investitura di Grande Romanzo Americano.

Quindi, per rispondere alle domande che si pone Emily Temple, ossia, cos’è il Grande Romanzo Americano?, cosa dovrebbe essere?, ne esistono?, ne abbiamo bisogno?, perché così tanti scrittori bianchi?, si può partire dal passo più semplice: rispondere domanda per domanda.

Cos’è il Grande Romanzo Americano? La risposta non può che prendere le mosse dall’iniziale definizione del 1868 di DeForest per il quale il Grande Romanzo Americano è il ritratto delle emozioni e dei comportamenti ordinari dell’esistenza americana. Da quel giorno però, la definizione si è arricchita di nuovi parametri grazie a studiosi, scrittori e giornalisti alla costante ricerca di un’opera che fosse meritevole di tale titolo, che ne incarnasse al meglio la definizione classica, nonostante fosse, ed è ancora, sempre più simile a una sfuggente chimera. Lo stesso, dopotutto, accade anche con la letteratura spagnola e la continua ricerca e definizione del grande romanzo della Guerra Civile e di conseguenza romanzo e rappresentazione dell’identità spagnola. Anche in Italia si cerca un sostituto de I promessi sposi (Alessandro Manzoni, Guglielmini e Redaelli, 1842), erroneamente assunto a romanzo italiano per antonomasia, che sia più incisivo e rappresentativo del popolo italiano e di conseguenza della sua identità. Forse però, come commenta ironicamente A. O. Scott sul The New York Times del 21 maggio 2006, il Grande Romanzo Americano è più simile allo Yeti o al Mostro di Loch Ness, perché semplicemente non esiste e non può esistere a causa della fuggevolezza dell’americanità e della sua natura ibrida, un’identità che sfugge a ogni definizione preconcetta, difficile da incasellare, sprovvista di un percorso univoco, caratterizzata dal multiforme e dall’individualità, quasi come una creatura criptozoologica, per ricollegarci a A. O. Scott, che molti dicono di aver visto, ma di cui nessuno ha le prove (https://www.nytimes.com/2006/05/21/books/review/scott-essay.html).

Senza entrare nel dettaglio di ogni citazione, per le quali rimando all’articolo di Emily Temple, i parametri con cui si definisce il Grande Romanzo Americano, e che ampliano la definizione di DeForest, possono essere così elencati:

  • definire chi vuole essere l’americano e non chi è l’americano;
  • ricerca della propria identità morale e culturale;
  • identità femminili, afro-americane o latine in opposizione al maschio bianco;
  • convivenza e assimilazione multiculturale;
  • inclusione, pluralismo e promiscuità del popolo americano;
  • messa in discussione delle convinzioni di un Paese;
  • libido, ipocrisia e ossessione;
  • perdida dell’innocenza, vergogne di un popolo e anti-americanità;
  • razza e virilità;
  • colpa e redenzione;
  • ricerca della felicità e del sogno americano;
  • presenza di Ubiquità, Notabilità, Moralità;
  • catturare l’essenza di persone reali su sfondi storici reali;
  • diffusione del testo e capacità di diventare oggetto di imitazione.

 

Cosa dovrebbe essere il Grande Romanzo Americano? A fronte delle varie interpretazioni raccolte dalla Temple, si può quindi sintetizzare che il Grande Romanzo Americano, pur trattando tematiche tra le più varie, non può eludere la riflessione sulla propria identità in continuo cambiamento. L’oggetto in sé, la materia narrata in sé, non ha un’identità. Questa si definisce nel momento in cui il soggetto fruitore riconosce nell’oggetto fruito una o più pertinenze. La pertinenza, secondo Prieto è quando si riconosce a più oggetti uno stesso concetto (Pertinence et pratique, Minuit, 1975). Concetto quindi come identità. Il concetto/identità è riconoscibile per la rete di connessioni isotopiche di un testo alla cui base c’è la coerenza narrativa. L’identità americana quindi, può essere scoperta attraverso questo riconoscimento, possibile, per quello che credo, solo in due percorsi: l’ammissione delle vergogne e dei peccati del popolo americano – dallo sterminio dei nativi all’omicidio Kennedy alla politica razzista, classista e sessista di Trump – e il confronto dialettico ed inclusivo con la pluralità socioculturale. Fondamentale però, che sullo sfondo di queste narrazioni, di questi “riconoscimenti”, qualunque sia la tematica esemplare trattata, resti la presenza mitica della grande natura selvaggia, la wilderness americana, che è stata la prima forza propulsiva ad aver spinto l’homo americanus a indagare, discutere e rappresentare se stesso in cerca della propria identità.

Ne esistono? Non credo ci possa essere un uomo al mondo che abbia letto tutti i libri americani pubblicati dal 1868 ad oggi. Ergo, non è possibile poter dare un giudizio definitivo, ma solo rappresentativo. La risposta che comunque mi sento di dare, nonostante le posizioni di diversi critici e studiosi, è che sì, esistono grandi romanzi americani. È impossibile che non ci sia nemmeno un’opera che più di tutte si avvicini alla rappresentazione più veritiera di una Nazione, tra l’altro molto giovane, come quella americana. È pur vero che l’estensione del territorio statunitense, la varietà etnica che compone la società americana, le latitudini opposte che creano sostrati culturali differenti, non aiutano a sintetizzare l’homo americanus. Più facile rintracciare l’identità americana nelle rappresentazioni che di essa fanno i mass media a partire dal vecchio West, quando nelle dime novels venivano raccontati o fatti completamente inventati o fatti realmente accaduti, ma ampiamente rimaneggiati, dando più peso alla fantasia dell’autore che al fatto storico in sé, come succede per Billy the Kid in The Authentic Life of Billy the Kid scritta dallo sceriffo Pat Garrett in collaborazione con il giornalista Ashmun Upson (The New Mexican Printing & Publishing, 1882) e di cui ho già discusso analiticamente in un articolo accademico apparso sulla rivista universitaria spagnola Alazet, “El lugar de un forajido: El bandido adolescente di Ramón J. Sender”, (https://www.academia.edu/26405809/El_lugar_de_un_forajido_El_bandido_adolescente_di_Ram%C3%B3n_J._Sender).

Personalmente credo che le opere che definiscono meglio l’americanità, sia nella sua esemplarità perfetta che in quella imperfetta, sono: Rip Van Winkle – l’uomo che scappa dal focolare domestico (la femmina) per isolarsi nella natura selvaggia; The Last of the Mohicans – il viaggio in una natura ostile dove l’uomo bianco trova il meglio di sé rappresentato nel selvaggio nativo (il famoso “matrimonio tra maschi” di Leslie Fiedler); Moby Dick – ovvero la storia di un’ossessione, gigantesca, bianca e letale: la razza; Huckleberry Finn – il bad bad boy libero e indipendente che senza studi umanistici, filosofici o politici alle spalle, si avventura sul Mississippi in compagnia di uno schiavo fuggiasco; e Blood Meridian – dove ritorna “la grande balena bianca” in una storia di violenza e perdizione. Seppur sintetizzate alla meno peggio, è chiara la postura con cui personalmente guardo all’America e al suo aspetto identitario più incisivo ed iconico.

Ne abbiamo bisogno? Tutti abbiamo bisogno di un romanzo che ci racconti, che ci definisca, che ci rappresenti senza però spiegarci davvero chi e cosa siamo. Il didascalico, lo scolastico e l’istruttivo annientano il potere mitopoietico della narrazione, ma non possiamo negare né il bisogno di un’opera di tale portata né la sua inevitabilità. Siamo piacevolmente condannati a rivederci in un racconto, proiettati sul telo di fondo di una stanza buia.

Perché così tanti scrittori bianchi? La società americana moderna nasce da una costituzione firmata da 40 uomini, tutti ricchi e bianchi di cui George Washington era il più facoltoso. Non una donna, non un povero, non un nero (Howard Zinn, A People’s History of the United States, Harper & Row, 1980). Da siffatta base sociale non poteva che nascere una cultura maschile, borghese e bianca. I grandi capolavori, anche in buona parte critici e problematici riguardo a tale struttura sociale, ci confermano come non sia necessariamente un’onta l’assenza di donne, del ceto medio o di altre etnie nel panorama delle voci della letteratura americana delle origini. Anche perché di voci ce ne sono state, magari poche in proporzione a quelle dei bianchi, ma per com’era organizzata e gestita la società americana era già un successo e non poteva essere diversamente. Oggi, da Alice Walker a Toni Morrison, da Langston Hughes a Richard Wright, James Baldwin e Colson Whitehead, da Spike Lee a Barry Jenkins, passando per Steve McQueen e Jordan Peele, dalla letteratura al cinema, alla televisione, alla musica e così via, gli afro-americani sono ben rappresentati, nonostante serpeggi sempre nel ventre molle del Paese un certo infimo razzismo, così come le donne, i ceti più poveri e altre minoranze etniche, tra cui i nativi, pur ben rappresentati in politica, letteratura, cinema, televisione e altri mass media, vivono costantemente alti momenti di tensione sociale. Comunque sia, il dato importante è che ad oggi queste voci ci sono. E ci sono grazie ad un percorso tortuoso fatto di scontri, sommosse, marce, proteste, morti ammazzati e conquiste civili che dal Novecento ad oggi ha portato le minoranze etniche ad ottenere rispetto, giustizia e anche peso politico e culturale. Un posto nella società americana che va sempre e regolarmente difeso, perché “la grande balena bianca”, il mito wasp nella sua degenerazione white trash, è sempre pronta a riemergere – vedi alla voce Steve Bannon, Ku Klux Klan, sovranismo e populismo.

2.Cos’è Yellowstone? Yellowstone è l’attuale Grande Romanzo Americano. La serie ideata da Linson e sceneggiata e diretta da Sheridan mette in scena l’americanità classica più riconoscibile – la frontiera, il cowboy, l’indiano – dotandola di suggestioni estetiche e narrative che vanno oltre il classicismo e s’inabissano negli interstizi labirintici delle complessità, delle contraddizioni e delle problematicità della modernità americana. Esistenti ed eventi sono infatti “bigger than life”. Se i personaggi e gli ambienti sono dotati di più strati interpretativi, dalla prima lettura iconografica alle successive letture politiche, esistenziali e simboliche, gli eventi vengono ugualmente caratterizzati iperbolicamente da temi di natura eccezionale e titanica e dall’utilizzo di moduli narrativi di genere che vanno dal dramma alla tragedia, e più contestualmente, dal family drama al wilderness drama, dal crime al western.

Colgo l’occasione per fare chiarezza terminologica. Yellowstone, all’interno della terminologia televisiva è molte cose, tra cui è sicuramente un western drama secondo il suggerimento di Leslie Fiedler (The Return of the Vanishing American, Stein and Day, 1968) sulla quadripartizione dei quattro generi base americani, il western, il southern, l’eastern e il northern. Il genere di appartenenza di Yellowstone è invece il modern western, nonostante sotto questa etichetta i critici ci infilino tutti i film western “girati” in epoca moderna, ma sicuramente non è un neo-western, anche se questo termine stia prendendo piede per identificare le trame western ambientate nella modernità. Per quanto mi riguarda bisogna fare dei distinguo. Un western ambientato nella contemporaneità, o comunque almeno dopo i primi vent’anni del ‘900, è necessariamente un western moderno, mentre un western, ambientato nel Far West storico, e che poeticamente, esteticamente e visivamente è innovativo o straniante e tematicamente originale e distante dai temi del genere classico e fondativo, ha senso dargli nome di neo-western, esattamente come indicato da Clarisse Loughrey in un articolo scoperto dopo la mia teorizzazione (https://www.independent.co.uk/arts-entertainment/films/features/the-hateful-eight-is-the-latest-film-to-prove-the-neo-western-genre-is-here-to-stay-a6796446.html), come l’esistenza, già dal 2011, di un corso universitario a carico del professor Robert T. Hayashi del Amherst College del Massachussets, college privato di arti liberali (https://www.amherst.edu/academiclife/departments/courses/1011S/AMST/AMST-24-1011S). Il che mi fa pensare che il mio non sia affatto un abbaglio.

Yellowstone infatti, racconta la lotta della famiglia Dutton contro imprenditori edili e nativi americani della vicina riserva indiana che voglio prendersi e ri-prendersi buona parte delle sue immense terre. Il plot, pur nella sua semplicità lineare, è già manifesto dell’americanità classica rappresentata fin dalle origini attraverso il western. Infatti, la lotta per i pascoli è un classico delle traiettorie narrative di alcuni film western in cui viene rappresentato, a volte in modo critico e problematico, il tema della proprietà e l’uso della violenza come atto di giustizia personale. Yellowstone continua su questa linea, impianta il conflitto, definisce i personaggi, le loro posizioni, la loro etica e infine li fa agire secondo quest’ultima. Lo scarto notevole, che segna la modernità e la grandezza della storia narrata, è la discesa infernale in una spirale di violenza che sembra non avere fine, caratterizzata dall’accumulo di twist, scene madri e climax. L’iperbole narrativa con cui si susseguono le azioni, tutte di grande impatto narrativo, come avventure rocambolesche, drammi familiari, svolte impreviste, colpi di scena e dialoghi lapidari, è straordinariamente vincente. Gli autori deflagrano la linearità classica dell’azione. Il conflitto iniziale si moltiplica in più conflitti, paralleli, opposti o tangenti l’azione centrale, permettendo al discorso di penetrare le viscere del ventre americano, anche letteralmente, data una caratteristica fisica del patriarca John Dutton – e non è un caso.

Proprio John Dutton, interpretato da Kevin Costner, Re Lear della Frontiera contemporanea, è il personaggio che più di tutti rappresenta il conflitto, l’allegoria dell’identità americana, concretata in un uomo che, padre/padrone, è il fulcro narrativo da cui si genera ogni dramma. Siamo nel Montana, dove a detta dell’avido imprenditore edile interpretato da Danny Huston si può fare quel che si vuole perché non si è in California, ma nei territori tra i più selvaggi e indomati degli Stati Uniti, dove regna su tutti il fascino dello Yellowstone National Park, voluto dal Presidente Grant nel 1872 per conservare le bellezze costituenti del patrimonio americano. Già qui, nella scelta della location, che funziona sia da co-protagonista silente, sia da dispositivo scatenatore del conflitto, si può rintracciare l’intenzione autoriale di pensare alla serie come racconto identitario dell’America più verace, lontana da quella più antropizzata e più definibile politicamente e culturalmente della East e della West Coast.

Lo Yellowstone Ranch, da più di 130 anni di proprietà della famiglia Dutton, è conteso sia dagli imprenditori edili, sia dai nativi americani, sia dai contigui confini del Parco Nazionale. Fondare il conflitto della vicenda sulla “roba” di verghiana memoria ed impostare l’epicentro tematico sul mito tutto americano della proprietà, con leggi ad personam e tanto di violenze connesse, chiarisce fin da subito la portata epica della storia, confermata dall’ambientazione: la wilderness.

In questo contesto si muove sia il personaggio di John Dutton che tutta la sua famiglia: Jamie, il figlio avvocato (Wes Bentley), Beth, la figlia alcolizzata (Kelly Reilly), Kayce, il figlio ribelle (Luke Grimes), il primogenito Lee (Dave Annable) e Rip Wheeler, il figlio putativo (Cole Hauser). Ma è sempre John Dutton ad innervare drammi, tragedie, odi, rimorsi, con la sua grandezza tragica, un misto di tragedia greca, tragedia scespiriana e cowboy americano.

Kevin Costner dà un volto glaciale, una voce affaticata e un corpo dolente a un personaggio estremamente ambiguo, di difficile analisi e di ancor più faticosa capacità empatica, in una prova attoriale che può ben essere considerata tra le vette della sua carriera, se non addirittura la sua miglior performance. Un ruolo che vale una carriera e un personaggio complesso, enigmatico, tormentato, che incarna la versione oscura dell’uomo di frontiera solo contro tutti che cavalca libero e indomito per lottare contro ogni ingiustizia. Qui, infatti, Kevin Costner dà vita a un uomo ricco e potente, un boss locale che ha sul proprio libro paga, oltre ai suoi mandriani, anche politici, affaristi e forze dell’ordine, per poter esercitare al meglio il proprio potere e la propria influenza su ogni questione che riguardi lo stato, la contea, il proprio ranch e il commercio di bestiame. Un despota pronto ad utilizzare ogni mezzo, compreso il delitto, per difendere la sua proprietà. Una proprietà che non si limita alla sola terra e al solo bestiame, ma che si allarga anche ai figli, che governa con pugno di ferro e marchia a fuoco come giovani vitelli. La proprietà è per John Dutton il mezzo per ottenere ed esercitare il potere. La proprietà è la sua identità. Il concetto di proprietà non è solo tipicamente americano, ma è drammaticamente identitario per tutto il mondo occidentale – e ritorna “la roba” verghiana.

Emblematico, a riguardo, l’incipit del settimo episodio. John Dutton vede un gruppo di turisti asiatici all’interno della sua proprietà, poco distanti tra l’altro da un orso grizzly intento a scavare nel terreno, lo stesso orso che da giorni sta minacciando la zona. Dutton scende dal suo SUV, in smoking e con tanto di fucile, e dice ai turisti che devono andarsene prima che l’orso faccia male a qualcuno. La guida asiatica e anche interprete, dice che non c’è pericolo, che l’orso è innocuo. Dutton non la vede allo stesso modo. Trafelato ed intimorito gioca la carta della proprietà: «Vedi quella recinzione? È mia. Quell’altra fottuta recinzione laggiù, è mia anche quella. Tutto quello che sta su questo lato della montagna, fino a qui, è tutto mio. Questa è proprietà privata. Proprietà privata», e mostra il distintivo di Commissario per il bestiame. La guida traduce e un turista asiatico controbatte fervidamente che non può essere vero, non crede a John Dutton; è sbagliato che un uomo solo possegga tutto questo e che dovrebbe invece condividerlo. Al che, John Dutton, con due colpi di fucile sparati per aria fa scapare i turisti sul pullman e sentenzia: «Questa è l’America. Qui la terra non si condivide».

Un’altra traiettoria narrativa tipica del genere western è la “difesa del fortino” da una minaccia esterna, o per estensione, la difesa della propria casa, di una terra, di un uomo o di una comunità sotto assedio e così via. In Yellowstone questa difesa ingaggiata con ogni forza da John Dutton ribalta il mito americano. Chi è quindi il cattivo? L’imprenditore edile che vuole costruire campi da golf e residenze di lusso nel cuore di un paradiso naturale? I nativi americani che rivogliono giustamente le loro terre, ma che i grandi capi vogliono utilizzare per costruirci un casinò? Il proprietario terriero che ricorre alla corruzione e all’omicidio pur di difendere la propria terra? In Yellowstone, la lezione democratica del mito della Frontiera trova così la sua inquietante nemesi, incarnata in John Dutton.

L’individualismo sfrenato e il capitalismo patologico che infetta la società occidentale caratterizza gli antagonisti principali di questo western drama: il costruttore Dan Jenkins interpretato da Danny Huston, il capo della riserva indiana Thomas Rainwater interpretato da Gil Birmingham, il cowboy e proprietario terriero John Dutton. E non solo. Caratterizza anche i fratelli Dutton che come un branco di lupi si mordono e si leccano le ferite dall’interno della famiglia, gettando un ulteriore inquietante luce su un altro pilastro della società americana, l’istituto familiare, qui riletto ferinamente in versione disfunzionale ed autodistruttiva: Jamie, l’avvocato, poco considerato dal padre, trattato come una mammoletta, vive nell’amletico dubbio tra la difesa o la distruzione della famiglia; Beth, il miglior personaggio della serie dopo il patriarca John, è una donna senza scrupoli, come il padre, dedita all’alcol e alla copula facile per il solo piacere di ferire l’altro, incapace di amare, traumatizzata dalla morte della madre, decide di difendere con le unghie e con i denti la proprietà di famiglia a modo suo, senza alcuna morale; Kayce, il fratello ribelle, vive nella riserva indiana con moglie e figlio, addestra cavalli e veste da cowboy, odia il padre e non vuole tornare al ranch, non vuole soldi, non vuole favori, non vuole nulla, ma le circostanze avverse faranno emergere anche in lui, ex-navy SEAL, la rapacità connaturata dei Dutton – e va detto che Luke Grimes, dopo Costner e la Reilly, è il migliore in campo, sapendo utilizzare al meglio i ricorsi iconografici della sua figura anche grazie a un fisico del ruolo perfetto; per il primogenito Lee, la questione è differente, trattandosi del martire che dà impulso all’azione scatenando il già esistente conflitto nella sua forma più devastante.

Inoltre, Beth è tacciata di puttana, Jamie di omosessuale e Kayce di traditore. Se la condizione viziosa di lei è accettata e tollerata in silenzio dalla famiglia e da chiunque conosce la sua condotta di vita, la continua femminilizzazione ai danni di Jamie, a cui Wes Bentley conferisce tutta la rigidità e la frustrazione del personaggio grazie al proprio apporto corporale, sottace la pratica brancale omofobica atta a dimostrare l’identità maschile. L’ipermascolinità innerva ogni personaggio maschile della serie, da John Dutton a Kayce, passando per i cowboy, gli affaristi o semplici avventori a caccia di avventure. L’icona del cowboy è da sempre icona di virilità, ma nella deformazione espressionista che ne fa Sheridan in Yellowstone, avallando le forme di violenza, i comportamenti camerateschi e i rituali machisti, il cowboy, l’emblema dell’America, si fa ipermascolino e quindi esaspera lo stereotipo maschile per costruire e mettere in scena la storia di una virilità in decadenza, prossima all’estinzione. Difatti, la forza fisica, la forza bruta, la mancanza di sentimento e pietas, l’aggressività e la condotta sessuale machista, dequalificano il concetto di virilità, conferendo al maschio un’immagine brutale e criminale, lontana dall’etica virile. Anche il tradimento di Kayce, passato con gli indiani, è percepito, come debolezza, fragilità, e quindi femminilizzazione.

I personaggi di Yellowstone sono stati creati appositamente per confondere, per non allineare, per preservare lo spettatore in un torpore mitico ambiguo in cui è sotto inchiesta il proprio status di appartenenza, interrogato in modo binario da coppie oppositive come giusto/sbagliato, legale/illegale, americano/indiano, città/natura. Ed è proprio la natura nella sua forma più spettacolare, tale è la bellezza senza rivali dello Yellowstone National Park, ad essere co-protagonista della vicenda e ad assumere anche il ruolo di volta in volta di convidado de piedra, di deus ex machina, fatum che origina il dramma o spettatore silente delle tragedie umane. Non solo la terra con la sua geomorfologia e il suo ecosistema, ma anche, oltre a rocce e vegetazione, la presenza animale.

La fauna non è affatto secondaria nell’articolazione tematica della serie. È risaputo come non sia affatto facile lavorare con gli animali, i rischi che si possono correre e le proteste a cui si può essere esposti. Inserire quindi, abbondantemente, il referente animale è una scelta autoriale precisa. Così, oltre a cavalli e mucche al pascolo, intervengono lupi, orsi, coyotes, cervi muli, wapiti e bisonti. Chi in branchi, chi in mandrie e chi raminghi, tutti attraversano la serie non come orpelli accessori, ma come vere figure narrative che danno senso e significato alla storia. Certo, Yellowstone è ancora lontana dal completamento della fauna del parco, mancano infatti all’appello il puma, l’orso nero, la lince, la capra delle nevi, il bighorn, l’antilocapra, l’alce e la simbolica aquila dalla testa bianca, in un certo senso indispensabile nell’economia della serie. Nonostante questo, la feralità e la predazione dei personaggi ben si riflette negli animali che partecipano a molte scene, così come ben rappresentano la loro innocenza arcadica. A volte il referente animale è utilizzato solo per ridondare la bellezza bucolica della terra edenica dello Yellowstone, altre volte per sottolineare appunto la feralità dei personaggi. Vedere un branco di cervi che attraversa silenzioso il fiume non è come assistere a un branco di lupi che divora una carcassa d’alce.

Analisi a parte andrebbe fatta per i cavalli. Il simbolo per antonomasia del genere western, strettamente relazionato con le odierne comunità rurali e con i popoli del passato a vocazione agricola, ma anche nomade e guerriera, è impiegato in Yellowstone come figurazione emblematica della virilità dei cowboy, della tradizione da difendere che incarna John Dutton, ma anche della libertà e della primitività che innervano il personaggio di Kayce. A conferma, questo, di come l’ambiguità delle coppie oppositive trovi anche nel referente animale un suo dispositivo di giudizio. Inoltre, i cavalli sono protagonisti di molte scene madri. Come l’incipit del primo episodio, la doma del mustang dagli zoccoli tigrati che darà tanti grattacapi sia a Kayce, al padre John e allo sfortunato Jimmy, oppure la morte della madre Dutton e molte altre. Dopotutto, la simbiosi tra cavallo e cavaliere, qui il cowboy, ma potrebbe essere anche un pistolero, un vagabondo, uno sceriffo, un cacciatore (anche di taglie), è proverbiale e sarebbe stato un peccato se la serie non avesse utilizzato al meglio la simbologia di questo bellissimo animale che, come l’asino, ha accompagnato l’essere umano fin dall’inizio della sua lunga storia.

Grazie e esistenti ed eventi, perfettamente orchestrati tra sceneggiatura e regia – regia che vale la pena ricordare fa tutto un fascio del facile melodramma e lo tiene fuori dal racconto preferendovi il dramma puro e secco, fino ad arrivare alla tragedia, oltre che a potenziare narrativamente e poeticamente ogni immagine [basti guardare la prima inquadratura del episodio pilota per capire la grandezza e l’ampio respiro dell’epica messa in scena da Sheridan] – Yellowstone tenta di rappresentare l’identità americana attraverso i suoi codici figurativi più riconoscibili e simbolici, collegati all’iconografia western, però dotandoli di quell’ambiguità e perfino quella disfunzionalità che trasforma i valori in disvalori così radicali che coinvolgono in prima persona non solo il personaggio di John Dutton, ma l’attore stesso.

Kevin Costner è da sempre repubblicano, ed è repubblicano lo stesso John Dutton che in un momento di pericolo imminente fa una telefonata e senza chiedere né scusa né per favore, pretende di parlare immediatamente con uno di “loro”, con uno del partito repubblicano, infamando poco dopo i democratici. L’esposizione chiara e senza giri di parole delle posizioni politiche rappresentate in Yellowstone sono coraggiose e molto interessanti perché aprono scenari interpretativi non comuni. John Dutton è Kevin Costner, ma Kevin Costner è anche John Dutton? Kevin Costner è repubblicano come è repubblicano John Dutton. John Dutton arriva alla corruzione e all’omicidio per difendere la propria identità. Lo farebbe anche Kevin Costner o stiamo assistendo a una esplicita critica dell’America repubblicana attraverso una sua icona? La stessa critica dopotutto, del maestro Eastwood che ha appoggiato sì  l’elezione di Donald Trump, ma che non smette mai di essere una voce critica e umanista interna alla tradizione repubblicana.

Questo è il vero conflitto posto da Sheridan attraverso i conflitti narrativi alla base dell’azione drammatica. Ed è da questo conflitto che nascono tutte le riflessioni, anche speculative, perché no?, sull’identità americana, un’identità che a poco più di 230 anni dalla Costituzione Americana e a quasi 200 anni dalla prima opera letteraria identitaria, è ormai giusto che l’America stessa si ponga nella sua ancor giovane età. E forse, Yellowstone, come Grande Romanzo Americano, può suggerirne la risposta.

 

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