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Crisi della sinistra. Una modesta proposta
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Nei circoli di paese ci sono pochi nostalgici veri. Sono quelli che hanno in mano una copia de “l’Unità” che il tempo ha ingiallito e ha reso demodé. Giugno 1984: Addio. Caratteri cubitali, in rosso. Oggi le mosche vigilano sui ricordi e li infettano, la noia blocca le parole, le petizioni di principio, quella politica come arte del possibile (Bismarck) o come sangue e merda (un meno pretenzioso ma non meno acuminato Rino Formica), quello stringersi attorno al popolo, mai sopra ma accanto ad esso, alla ricerca ed alla condivisione delle sue istanze, unico modo per poter morire sul lavoro, durante il lavoro, ed essere celebrati da una massa oceanica, che non aveva cellulari né facebook e che non li avrebbe voluti anche se all’epoca ci fossero stati.

Ci vorrebbe un Giorgio Gaber, postmoderno e smagato come sempre, per analizzare la possibile ontologica e residuale distinzione tra destra e sinistra, per visionare e vivisezionare quella osmosi incomprensibile tra desideri, ansie, aspettative, speranze, pantheon di riferimenti storico-culturali, quel territorio decolorato (e forse decerebrato) fatto di un’unica tonalità, di parole che volteggiano uguali e contrarie, parallele ma destinate a ricongiungersi, di travet della passione politica, di ceto impiegatizio e delle sue barricate in poltrona, di grisaglie grigie alla Gentiloni, di supercazzole mascettiane del Renzi. Sinistra, o dei disastri. Della desertificazione degli ideali, della litigiosità da condominio, del rigetto dei numi tutelari (chi trovi oggi un operaio come il pratoliniano Metello, con le sue vene pulsanti impegno e ferina intelligenza concreta, politica, con il suo alternarsi tra Camera del Lavoro e camere da letto, sempre conservando l’orgoglio e la coscienza, l’umanità, di una classe, la sua, chi lo trovi sarà eletto, per plebiscito ed unanime acclamazione, nuovo eterno e sempreinpiedi segretario). Noi, che non siamo Gaber né Pratolini, che non abbiamo conosciuto Metello e i suoi simili, avanziamo una modesta proposta. Drenare il flusso incontenibile della perdita dei consensi, ridare alla sinistra il suo atout, la sua riconoscibilità. Un nome nuovo, insospettabile, che forse piacerebbe a Uolter Veltroni (ma sì) ma che anche sarebbe piaciuto (come no) a quel mattocchio idealista di Renato Nicolini.

 

Perché, se deve esser guerra, guerra sia. Esaurita la stagione delle P38, del terrore, dei morti ammazzati in quanto simboli, occorre tuttavia recuperare una pur minima simbologia, tracciare il territorio con una linea di demarcazione, mettere alcuni da una parte, alcuni dall’altra. Occorre avere uno sguardo chiaro sulle cose, limpido e cristallino, pressoché azzurro mare. Di più: perdersi nel mare delle proprie convinzioni, naufragare su un’isola e tentare una complicata civilizzazione nel nulla. Ripartire da zero, dunque. Individuare il nemico, non aver paura di lui, non cercare con esso strane ed ambigue intelligenze. Avere orgoglio, coerenza, felicità dei propri natali e delle proprie infanzie. Non temere qualche falla culturale, essere popolo, fare popolo con la sola moltitudine delle proprie ragioni. Dire pane al pane e vino al vino, disprezzare l’altro da sé, con quel disprezzo mai domo, quel disprezzo che è il primo passo verso il riconoscersi. Le vie di mezzo sono fatte per chi ha tempo da perdere (ancora Metello, ancora Pratolini). E allora: se io vengo dal popolo, se io sono il popolo, come il popolo parlerò, come il popolo mi incazzerò, userò bastone e carota, insulterò il capitano d’industria e la dama che fa carità nei salotti annoiati. Bottana industriale: ecco la sintesi perfetta, icastica, al riparo da ogni replica soddisfacente. Alla faccia del politically correct: la sinistra non è buona, la sinistra deve essere (appunto e ancora) sangue e merda. Parlare come si parla nei vicoli e nel buio, imporsi con la forza, sbraitare e, sì, sottomettere.

E così le primarie vedranno l’incontestabile e incontrastata vittoria di Gennarino Carunchio. L’uomo nuovo, il soffio di libertà belluina, il verbo delle tonnare, la squisita morbidezza mai del tutto soffice dell’arancino. L’occhio ceruleo, quello che non ebbero Berlinguer e il Migliore, figuratevi un po’ Natta e Occhetto, la sintassi basicamente rivoluzionaria. Con Gennarino Carunchio le bandiere rosse torneranno a garrire, L’Internazionale Socialista assumerà le tonalità di uno scacciapensieri. Ci vuole un rivoluzionario alla guida del PD: Gennarino Carunchio è un terrorista del sentimento, un brigatista dell’orgoglio di casta. Gli schiaffi a Raffaella Pavone Lanzetti non sono schiaffi a Raffaella Pavone Lanzetti, sono sganassoni ad un simbolo, sono il riassestare Lenin sul piedistallo che gli compete, riverniciare il famoso Pantheon di idee, uomini e azioni, vomitare il dissenso sulla cultura della fabbrichetta, sul caporalato della servitù e dei domestici, sulla puzza sotto il naso (da sostituire, sussistendone le condizioni anche spazio-temporali, col ben più sano afrore ascellare). Gennarino asservisce ai propri voleri la destra, la riduce in cenere, la innamora. Gennarino è il Masaniello antico dei tempi moderni, il primitivo senza clava e senza libretti rossi, un Tito che di cognome fa Esposito o Ficarrotta. Con Carunchio la segreteria PD rivolta la destra, la rigira e la intorta con quella violenza fisica e psichica che le è innata (cura onomatopeica alcuni direbbero, non Gennarino). Sembra un film ma non lo è. Ciak si giri. E la Pavoni Lanzetti infine si girò, con amore, con passione, con desiderio. Avanti popolo, cerniera rotta la trionferà.

 

P.S. Tuttavia, Gennarino, se vuoi fare il segretario PD devi finalmente imparare il significato della parola sodomia. Chiedi ai tuoi predecessori. Te lo spiegheranno alla perfezione.

 

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