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Come ho già detto altrove (1), con gli animi indomiti per natura, spesso accade che l’emulazione dei modelli di riferimento diventi stile di vita, postura verso il mondo, atteggiamento e approccio sociale. La sovrimpressione delle due figure ne genera una terza che diventa in seguito l’unica percezione della figura originale che ha il mondo.

A luglio 2013 facevo trentacinque anni, quelli del “mezzo del cammin di nostra vita”, quelli della selva oscura, della diritta via smarrita. Ho giocato a fare bilanci e nuove proiezioni e mi sono accorto di come fossi irrimediabilmente legato non solo all’eredità biologica dei miei parenti genetici, nonno, papà, mamma e nonna, dove la linea maschile ha avuto il sopravvento per ovvi motivi, ma anche a uomini, figure, icone, modelli di riferimento estetici, etici e civili che si sono complementati con le mie idee, le mie istintualità e le mie intuizioni. Il risultato è stato un meticciato antropologico il cui carattere sociale, culturale, artistico-espressivo e psicoevolutivo è ora inscalfibile e irremovibile.

Erano gli anni ’90, gli anni della mia formazione. Il primo decennio liquido, il decennio di internet, del postmoderno più emblematico, della distanza storica, delle pacificazioni ideologiche, della sterilizzazione della lotta sociale e di classe; il decennio delle pentole scoperchiate, degli scheletri negli armadi, della spettacolarizzazione della politica e della prostituzione dell’etica sociale e dell’onestà intellettuale; l’ultimo decennio del secondo millennio con le sue catastrofi culturali, i millenarismi, i passaggi di soglia, il mille non più mille; infine, il decennio della mia adolescenza.

Tutto è cominciato nei primissimi anni ’90 con i Nomadi e Augusto Daolio, la cui voce era uno strumento musicale. Ero in prima media e le loro canzoni erano un vangelo laico. I testi di Daolio e Carletti erano parole alla riscossa, mentre le performance canore del frontman della band erano qualcosa di simile all’abbraccio di un amico. Quando Daolio è morto nell’ottobre del 1992 mentre ero in terza media, mi sono scoperto debole e sensibile. Sentivo di aver perso una guida, un faro che fino ad allora mi aveva indicato la rotta e gli approdi. È stata la prima volta che ho sentito una parte di me strapparsi, come se di colpo tutto quello che ero fosse stato messo in discussione.

Fortunatamente, la vita riserva un sacco di motivi per rinascere, per cercare nuove guide, per ricostruirsi un’idea di sé o consolidare la precedente, trovare nuove modalità per esprimere se stessi, nuove passioni, nuovi obiettivi, nuovi percorsi. Una continua palingenesi che esorcizza la morte. Sempre in prima media per esempio, ha fatto irruzione nella mia vita uno dei personaggi a cui la mia immagine pubblica è strettamente collegata.

Ricordo che l’oratorio proponeva il cineforum per noi ragazzi delle medie. Il primo appuntamento era stato Taps – Squilli di rivolta (1981) e già questo titolo mi aveva non poco incanalato verso una sana ribellione ai soprusi del sistema e alle sue imposizioni ideologiche, ma il grande bang è arrivato poco dopo. Il mese successivo, il secondo film che ci hanno proposto è stato Mississippi Burning – Le radici dell’odio (1988) e sono successe tre cose importanti: mi sono innamorato del cinema, mi sono innamorato della lotta civile e mi sono innamorato di Gene Hackman.

Il grande attore americano in Mississippi Burning ha saputo colpirmi fin dalle prime battute quando in macchina con Willem Defoe mentre intona canti razzisti, con quei suoi occhietti inquieti ti manda a dire che lui è un duro dal cuore d’oro. Poi sono stato conquistato dalla sua presenza scenica e dal ruolo di duro incorruttibile e raddrizzatorti quando nell’ufficio dello sceriffo Stuckey, dopo l’infelice battuta del vice Pell (Brad Dourif), Gene Hackman gli si avvicina, si siede sulla scrivania e gli dice “Senti a me villano, fottuto, culo merdoso: hai due secondi per fare uscire Stuckey o butto giù la sua porta a calci”. Seguono il racconto del padre e dell’asino del vecchio Monroe; Hackman che stritola le palle a Michael Rooker mentre non le manda a dire a Brad Dourif; il “Lei è arrogante per quanto è stupido” detto a Defoe dopo il pestaggio di Francis McDormand; e infine l’apoteosi, la scena dal barbiere con un altro monologo di grande impatto e perfettamente reso da Hackman, il celebre “You got a stupid smile” indirizzato a Dourif.

Da quel giorno in avanti, Gene Hackman, il cinema e la lotta civile e sociale sono diventate per me piacevoli ossessioni. Anche se il cinema già lo seguivo fin da piccolo è stato in questa occasione che ho acquistato coscienza del mezzo, del suo linguaggio e delle sue infinite possibilità espressive e tematiche.

Ricordo che i miei cult dell’infanzia erano I Goonies (1985), Explorers (1985), Indiana Jones, Fantozzi, Lo chiamavano Trinità (1970) e tutti i film di Bud Spencer e Terence Hill, ma anche Grosso guaio a Chinatown (1986), E.T. (1982), Per un pugno di dollari (1963) e tutti i film di Bruce Lee che piacevano tanto a mio padre – in compenso non avevo ancora occhi per Nightmare (1984) e Doppio taglio (1985): solo il trailer mi faceva paura. Così, nel passaggio dagli anni ottanta ai novanta, passaggio coinciso con il salto dalle elementari alle medie, l’arrivo di Gene Hackman è stato fondamentale ed esplosivo. Non solo la passione per il cinema e la recitazione si sono fatti più forti, ma sono restato fortemente influenzato dalla tipologia dei ruoli classici di Hackman, compresi i suoi villain, tanto da interpretare quasi esclusivamente ruoli da cattivo quando nel 1992 ho iniziato a fare teatro. Sono stato Jafar, Richelieu, Uncino, Erode, lo sceriffo di Nottingham, Giulio Cesare, Joe Dalton, il padre di San Francesco, l’assassino di Trappola per topi e diversi pistoleri in puro stile blackhat. Personaggi ispirati dalle caratterizzazioni canagliesche di Gene Hackman, così come a lui mi ispiravo sempre anche per interpretare ruoli da caratterista o da protagonista.

Il 1992 è stato quindi un anno molto incisivo per la mia evoluzione artistico-espressiva. Dopo i Nomadi, Daolio e Gene Hackman sono entrati nella mia vita altri due personaggi su cui ho modellato la quasi totalità della mia esistenza: Joe Cocker e Clint Eastwood. Il primo è arrivato dopo anni di inseguimento: finalmente avevo capito chi cantava la canzone che all’epoca mi piaceva tanto e ho iniziato a recuperare tutti gli album passati e a comprare tutti quelli futuri. Il secondo invece, che già ben conoscevo dalla mia infanzia, ho iniziato a seguirlo, ammirarlo e concepirlo come un ulteriore modello di riferimento quando nel 1992 avevo visto Gli Spietati, al fianco appunto di Gene Hackman. La scorza era la stessa, il legno era della stessa qualità, uomini duri e avventurosi, con l’unica differenza che mentre uno è sempre stato l’antieroe buono che i cattivi li metteva tutti in fila, l’altro ogni tanto oltrepassava la linea tra bene e male e si trasformava nel diavolo in persona, come il luciferino Rankin Fitch di Runaway Jury (2004). Due facce della stessa medaglia che hanno potuto così integrare in me quell’idea ancora oggi non sopita e mai domata dell’uomo duro e distaccato, dell’uomo solitario che nasconde i suoi sentimenti e lotta, junghiano, per sé come individuo e per gli altri come collettività.

È arrivato poi il 1994 e quando ho visto al bar dell’oratorio una tappa del Giro d’Italia dove un corridore s’arrampicava in bicicletta sulle stesse montagne su cui io già dalle elementari mi arrampicavo in altro modo, ghiaioni, boschi, rocce, pascoli, soddisfacendo quello spirito huckleberry che mi portava a scappare sempre da nonni, zii e genitori, mi sono chiesto chi fosse e ricordo che è stato tutto come un fulmine: io ero quel tipo in bicicletta. Era Marco Pantani e da quel giorno la mia vita ha vissuto una nuova simbiosi.

Non solo mi ero colorato i capelli di biondo nel giorno stesso in cui Pantani vinceva sul Galibier e indossava poi la maglia gialla, confermando una sintonia che sentivo fin dal ’94, ma per tutti quelli che mi conoscevano io ero diventato un suo alter ego: si complimentavano con me per le sue vittorie come se avessi vinto io. Poi, dopo Madonna di Campiglio, sono arrivati anche gli insulti e le scritte ingiuriose sulla macchina, come se io fossi colpevole. Ma non lo ero, come non lo era Pantani, ucciso prima dal sistema omertoso del business delle scommesse e poi da qualcuno che non lo voleva più tra i piedi. Hanno inscenato un suicidio con tanto di agenti compiacenti che in quella notte di San Valentino del 2004 facevano entrare e uscire chiunque da quella stanza. Gliel’hanno fatta da cani, e qualcuno deve pagare.

Pantani forse non era un santo, ma certo non era il delinquente traditore che molti hanno condannato anzitempo. Dopo Madonna di Campiglio, con la depressione è arrivata la cocaina, le notti brave, la spocchia e le grandi richieste d’aiuto che il campione mandava e nessuno capiva, come l’alta velocità, le multe, i grossi incidenti in macchina. Dal ’99 al 2003, per Pantani è stata un’unica salita, l’ultima, quella che portava alle Cascate del Toce e sulla quale quel giorno l’ho visto passare per l’ultima volta.

La mia sensibilità, che ho sempre cercato di nascondere dietro la scorza dura dell’uomo distaccato e burbero, affiora spesso ancora oggi davanti a questi ricordi, in cui mi rendo conto di quanto sia stato forte e quanto lo sia tutt’ora il legame allacciato con una persona il cui modello mi ha accompagnato negli anni più burrascosi, inquieti e formativi della mia vita. Sui banchi di scuola incontravo la Scapigliatura Milanese, alla base di tutta la mia sensibilità antagonista; mentre fuori dalle mura scolastiche, tra cinema e musica e sport diventavo sempre più uomo e ben conscio di chi ero.

In questa linea pscicoevolutiva, dove alla base della mia crescita come essere umano e cittadino c’era una forte volontà psicologica di interiorizzazione dei modelli esterni, c’è stato posto anche per altri personaggi per nulla meno incisivi dei precedenti, anzi, la loro vicinanza e la loro milanesità, hanno fatto in modo che il loro modello s’intrufolasse in me facilmente, radicandosi così bene da cambiare per sempre la mia vita.

Da mio padre ho ereditato la passione per Adriano Celentano. Ogni tanto mi racconta ancora di quando l’ha conosciuto a Gaggiano, dove mio padre viveva da ragazzo. Celentano scende dal camper e chiede a mio padre dove si trova la chiesa del paese e come arrivarci. Mio padre allora si rende disponibile per accompagnarlo. Celentano si gira verso il camper per chiamare Claudia Mori, ma lei rifiuta. Lui si gira verso mio padre e gli dice “È comunista”. La capacità spiazzante di Celentano di ironizzare su tutto con quella comicità lapidaria, che ne decreterà il successo anche come attore e personaggio televisivo la, si trova anche nella vita privata, a riflettori spenti, segno di un’indole precisa che è anche la sua cifra autoriale. Di lui assimilo bene le pose e l’incedere, tant’è che quando si andava fuori a ballare i miei movimenti erano un mix tra gli spasmi di Joe Cocker, dita comprese, e i molleggiamenti di Celentano; così come la monoespressività comica di tante battute surreali, unitamente alla lapidarietà della recitazione eastwoodiana, sono alla base della mia particolare verve comica il cui pilastro maggiore è comunque stato Renato Pozzetto.

Gli anni ottanta sono stati per i tanti comici italiani, tra cui Pozzetto e Celentano, una bella occasione per sperimentare il loro linguaggio comico inserito in contesti atipici, come la produzione di film esili nella sceneggiatura e scialbi nella messa in scena, tutti sorretti dal personaggio e la sua comicità. È stato in questi anni che guardando Pozzetto e Celentano, pur non dimenticando la lezione fantozziana di Paolo Villaggio – mi presentavo linguato in oratorio – ho affinato, prima nell’imitazione poi nella riproposizione originale, la mia comicità tutta giocata sul nonsense, lo straniamento, il fuori contesto, il cinismo, la lapidarietà e la sdrammatizzazione. Pozzetto è stato per me l’occasione di trovare dentro di me il giusto meccanismo comico per esprimere me stesso nella socialità, scindendo senza soluzioni di continuità la mia anima dura e fredda – Hackman, Eastwood, Cocker, Pantani – da quella allegra, comica, solare e ruspante – Celentano, Pozzetto Jannacci.

Già, Enzo Jannacci. Jannacci, oltre avermi passato il morbo della comicità stralunata, è stato anche un grandissimo maestro di etica e civiltà. Un campione di umanità, arte e genio unico ed irripetibile. È stato l’ultimo, l’ultimo di noi scapigliati, lui che era ancora della vecchia scuola e sapeva fare poesia poestrando le sue storie in canzoni che non erano solo canzoni, ma anche pezzi riuscitissimi di cabaret, piccoli film dalla colonna sonora coinvolgente, teatro popolare dell’arte, l’arte della maschera, della tipizzazione, del particolare che si fa universale. Jannacci è stato un maestro, una guida, quel faro che avevo perso anni prima e che fortunatamente, nelle incredibili pieghe che prende la vita, ho ritrovato molto presto, ancora adolescente, in altri volti, altre voci, altre forme.

E Maestro di vita e riflessione, come di arte ed espressione, è stato anche Ermanno Olmi. Un uomo antico di antica dignità. Il suo esagerato amore per l’essere umano gli ha permesso di creare capolavori umanisti lungo l’arco di tutta la sua carriera. Gli ho stretto la mano e ho sentito l’uomo dietro il regista, l’umile artigiano dietro il maestro. L’onestà intellettuale con cui ha raccontato la prosa umana con liriche e insognazioni favoliste e senza tempo, trova proprio nel racconto dai contorni sfumati la speranza di poter arrivare a tutti, nessuno escluso, nella sua disperata urgenza etica e civile. Il suo sguardo contemplativo è il mio davanti al racconto della vita semplice e dignitosa delle sue storie immortali.

Un’ultima ossessione: Billy the Kid. Il mito western con cui sono nato e cresciuto si vivifica soprattutto nella figura del bandito. Giovane o adulto che sia, solitario o compagnone, il ribelle alla società e alle consuetudini, ai riti e alle ipocrisie borghesi, marca sempre la sua distanza e la sua immortalità impersonando quell’età dell’oro che abbiamo perso o mai vissuto. E se il mito di Billy the Kid mi accompagna nelle insognazioni, è Kris Kristofferson ad impersonarlo definitivamente e a creare l’icona più fortunata e più precisa del mito.

Da qui, una rincorsa al suo cinema, ai suoi ruoli, e soprattutto alla sua musica. Insieme a Joe Cocker e a Mick Jagger è il terzo dei “miei americani”, all e old americans, la cui musica, la cui voce e la cui immagine, il corpo, la figura, l’icona, sono il paradigma più riuscito nella trasfigurazione del mio intimo alla sua concrezione. Cantautore politico, attore feticcio di Sam Peckinpah e dei seventies, Kristofferson attraversa la controcultura americana con la frontiera scolpita in volto, riportando la vera americanicità a stagliarsi sullo sfondo di un immaginario strumentalizzato ed impoverito dalla retorica. La sua veridicità, la ruspante concretezza americana, sono le assi estetiche su cui si regge la sua carriera folk. Già visto più volte in concerto, l’ho conosciuto, gli ho stretto la mano, ci ho parlato, riso, scherzato, fatto foto e firmato poster, scoprendo quanto fosse semplice e umano. Ogni volta che ci ripenso sorrido e mi dico “Ho conosciuto Billy the Kid” e subito mi sento un vecchio westerner al bancone di un saloon.

Molti nomi, molte facce, molte vite (2). Di tutti loro ho preso qualcosa, fatto tesoro di quasi tutto praticamente, tranne di quei segreti che li hanno resi magici ai miei occhi e umanamente vicini al mio cuore. Io so di essere me stesso, ma sento anche che in me rivive molto altro. Rivivono gli aspetti distintivi di quei personaggi che mi hanno accompagnato per tutta la mia vita e che, credeteci, lo faranno per sempre.

Note.

(1) //www.filmtv.it/post/30726/i-get-by-with-joe-cocker/#rfr:user-3973

(2) Nella mutevolezza delle cose e della vita non si può sempre restare ancorati al passato e intrappolati in uno schema. Col tempo altri personaggi hanno arricchito il mio immaginario e il mio animo, stringendo con me un patto di sangue che non me li farà mai dimenticare. Tra questi voglio rapidamente ricordare gli attori e gli scrittori che mi hanno segnato profondamente e grazie ai quali io sono sempre più l’immagine di me stesso: Bela Lugosi, Henry Fonda, Klaus Kinski, Sam Peckinpah, Warren Oates, Charles Bronson, Elio Germano, Josh Hartnett, Yon González, Ramón José Sender e Cormac McCarthy.

 

Abbiategrasso, 1 gennaio 2015

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