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Enzo Tortora, un uomo perbene
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Roma, 17 giugno 1983. Il presentatore televisivo Enzo Tortora esce dalla sede del nucleo operativo di via In Selci (alcune ore prima era stato prelevato dall’Hotel Plaza) tra due carabinieri con le manette ai polsi. I flash dei fotografi immortalano un’immagine che sconvolgerà tutti gli italiani. E’ l’arresto più clamoroso del maxi blitz contro la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo che porterà in carcere in quei giorni novecento persone. Le accuse nei confronti del famoso volto televisivo sono gravissime: detenzione e spaccio di droga e “di far parte dell’associazione per delinquere denominata NCO dal 1980 e in epoca successiva”. L’Italia, come triste consuetudine, si dividerà in innocentisti e colpevolisti con un vasto seguito di giornalismo spazzatura. Lo accusano un manipolo di pentiti improvvisati e inattendibili, tra i quali spiccano Giovanni Pandico e Gianni Melluso. Il primo è stato in carcere per dieci anni il fedele e zelante segretario del boss di Ottaviano Cutolo, portavoce della NCO, nel ’70 uccise due impiegati comunali per un movente banale, viene definito “un calunniatore dalla personalità mitomane e deviante”. Si racconta che Pandico si volle vendicare di Tortora perché non prese mai in considerazione una collezione di centrini spedita per il famoso programma “Portobello” dal camorrista Domenico Barbaro. In verità la redazione della trasmissione smarrì i centrini e la Rai pensò a risarcire il proprietario con tanto di lettera di scuse. Pandico, da pericoloso paranoico, prese a pretesto ciò per subissarlo di lettere minatorie e costruire il castello accusatorio insieme a Pasquale Barra detto “’O animale”, poi come una catena di Sant’Antonio si arrivò a una quindicina accusatori. Tra gli altri una coppia di coniugi (Margutti), esterni alla Camorra e presunti partecipanti ad alcune sue trasmissioni, i quali giurarono di averlo visto consegnare droga dietro le quinte dell’emittente televisiva Antenna 3. Melluso, detto “Gianni il bello” entra in scena nel gennaio ’84, è un malavitoso salito dalla provincia di Catania alla grande metropoli lombarda, nelle dichiarazioni ai giudici e ai giornalisti è il più scatenato e fantasioso e viene ritenuto “un cinico calcolatore”. Fa precisi riferimenti a consegne di droga ad Enzino (così lo chiama spudoratamente) tra il ’76 e il ‘78 nell’hinterland milanese per conto di Francis Turatello. Pandico dice che Tortora fu nominato camorrista ad honorem nel 1980, di rimando altri “pentiti” confermano che si occupò del traffico di stupefacenti nel periodo in cui il boss milanese e Cutolo strinsero un patto di collaborazione a fine settanta. In alcuni faccia a faccia determinanti per i giudici di Napoli lo sfrontato Melluso infanga il presentatore turlupinando la corte: “ Io portavo solo la roba dove mi diceva Turatello. Voi quella volta mi avete aspettato in un baretto. Dieci anni fa non eravate nessuno. E’ stato Turatello ad interessarsi per farvi assumere di nuovo alla Rai. Oggi ci sta guardando tutta Italia e voi cercate di mettermi in difficoltà per apparire innocente…”. Tortora, uomo colto e raffinato, smorza le infamità con l’ironia ma di fronte a sé ha un professionista senza scrupoli della calunnia. Dal carcere Vallanzasca esclude che l’amico Turatello conoscesse Tortora e piuttosto Melluso stesso, tra le sbarre, cercava raccomandazioni presso il boss della malavita milanese. Gianni il bello non pago, per consolidare le sue fandonie, tira in ballo Califano, Walter Chiari, Calvi e persino “un potente imprenditore che costruì mezza Milano con i soldi sporchi” dell’onnipresente Turatello (all’epoca già defunto e quindi facilmente evocabile). “Gente disperata che non aveva nulla da perdere e che approfittava del clamore mediatico per salvarsi la pelle”. Questo erano i cosiddetti pentiti della NCO. Lo scorso anno Melluso in un’intervista a L’Espresso ha dichiarato di essersi inventato tutto per compiacere i minacciosi Pandico e Barra, scusandosi con i familiari di Tortora (sic!). I giudici condanneranno in primo grado Tortora a dieci anni e la legge che regolerà il pentitismo vedrà la luce più avanti e troppo tardi per l’uomo di “Portobello” che, in seguito, verrà assolto e potrà tornare un’ultima volta in Tv ma che da questa triste vicenda rimarrà sempre segnato. Morirà nel 1988 a soli sessant’anni. Eppure, nonostante il clamoroso errore giudiziario, anni dopo alcuni giornalisti scriveranno (per un’enciclopedia televisiva) una sorta di biografia piena di lacune - a partire dalle date – in cui quella macchia pare dura a morire: “…nel 1977 Enzo Tortora lasciata la Rai, fonda una sua emittente con Renzo Villa. Per dare il via ad Antenna 3 ci vogliono quattro miliardi e mezzo: è il primo colosso privato dell’etere. Quattro miliardi per acquistare gli enormi studi alla periferia di Legnano…il programma POMOFIORE negli ascolti batte Mike Bongiorno. L’utenza pubblicitaria accorre, il successo dell’emittente fa clamore e notizia. Eppure questa verrà vissuta come “la parentesi povera e buia” della vita di Tortora. Dietro le quinte dei suoi studi miliardari il giornalista-conduttore avrebbe colluso con mafiosi, fatto lesto passamano di droga, perpetrato indegni traffici. Quando lascia la sua emittente egli è già un uomo segnato dal prezzo che ha dovuto pagare al troppo successo: gelosie, illazioni, colpi bassi…”. Nel suo passato ci fu solo il mestiere di giornalista svolto con passione in cui risaltò una personalità indipendente, un carattere schietto e sincero senza peli sulla lingua, ai limiti dell’antipatia. 

 

Al cinema nel 1999 Maurizio Zaccaro ha raccontato il caso Tortora in UN UOMO PERBENE, scritto con Umberto Contarello e Silvia Tortora. Pur volenteroso e dettagliato il film ha convinto solo parzialmente: Stefano Accorsi nei panni del giovane avvocato Della Valle invade un po’ troppo la scena (pur capendo l’espediente narrativo del regista), lungaggini e siparietti vari infine ne hanno inficiato la resa. Una storia di tale fattura avrebbe meritato una regia più inventiva (Sorrentino per fare un nome) e meno scolastica, per risaltare ulteriormente la superficialità e la negligenza delle indagini e della prima corte giudicante, all’attivo comunque l’umile e mimetica interpretazione di Michele Placido nei panni del protagonista, la riproduzione fedele della tenacia e convinzione dei tre avvocati, il dolore dei familiari e le difficili prove di Vincenzo Peluso e Leo Gullotta quali Melluso e Pandico. Talvolta, però, certi casi giudiziari che diventano eventi mediatici hanno maggiore credibilità e forza senza l’obbligo di rappresentazioni artistiche. Il dramma umano e (l’incubo) giudiziario di Enzo Tortora è arrivato più facilmente al cuore e alla mente della gente con i volti, le parole e i fatti reali. “L’Italia vera e non ufficiale mi ha capito e mi capirà”.

 

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