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Così lontano, così vicino

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Così lontano, così vicino

di Aquilant
6 stelle

Primi anni 90: il muro di Berlino è finalmente caduto suggellando l’attesa fine di un’interminabile Guerra Fredda e con esso tutte le illusioni e le speranze di un mondo intento a confidare in un futuro migliore ma che invece si trova a fare i conti con una realtà socio-politica disastrosa. Wenders avverte la necessità di tornare a far rivivere i suoi angeli, di narrare da un diverso punto di vista la nuova realtà di una Germania sempre più libera ma tuttora all’oscuro dei valori fondamentali dell’uomo. “Berlino è molto cambiata dal 1987,” afferma lo stesso l’autore, “dopo la caduta del muro sono avvenuti altri mutamenti. L'unificazione è stata un grosso abbaglio, quasi un tradimento, soprattutto per chi viveva ad est, che oggi è ancora più povero.”
La prima parte del film è immersa nella medesima atmosfera onirica del “Cielo sopra Berlino”, con analoga, prospettica visionarietà, pur se mutuata da radi ammassi stratificati di disillusione che pervadono la consueta, cupa glacialità delle sequenze. E la pellicola sguazza, si dibatte ed affonda nella descrizione di una realtà colta con occhi del disincanto, pervasa da un disumanizzante strapotere mediatico che sembra non conoscere confini grazie ai numerosi strumenti di comunicazione di massa, sempre trattati a guisa di stereotipi dall’afflato di subdola e morbosa invasività che contribuiscono ulteriormente ad estraniare la collettività dalla realtà ontologica dell’angelo, il cui sguardo permane pur sempre vigile al di sopra della metropoli. L’umanità che non lo ama, che non riesce né a vederlo né a sentirlo lo crede COSÌ LONTANO, eppure lui è COSÌ VICINO, creatura ultraterrena pronta a donare la luce a chi è immerso nel buio. “No, noi non siamo niente” afferma non a caso l’angelo insieme a Raphaela, alata messaggera d’amore, “voi siete il nostro tutto!”
Nella seconda parte della vicenda dall’incedere problematico e zigzagante immotivate ellitticità finiscono col mettere a dura prova la pazienza dello spettatore. Tramite imprevedibili contorsioni della materia filmica che nel suo inquieto girare e rigirare finisce per contrarsi e di ritrarsi su sé stessa quasi totalmente privata anzitempo della sua linfa vitale, il regista impone di prepotenza alla storia un forzato e repentino cambiamento di registro narrativo. Ci costringe ad essere testimoni di un progressivo ed incauto denudamento della materia stessa, smascherata e conseguentemente costretta contro la sua volontà a rivelare una nebulosa ed insostanziale consistenza dietro una sottile patina di pretenzioso e velleitario intellettualismo teso ad emulare l’inarrivabile, paradigmatica perfezione del “Cielo sopra Berlino”. E di conseguenza la straniante e rarefatta atmosfera filtrata dalla visione dell’angelo tende completamente a sparire per far posto ad un maggior impatto realistico memore delle codificate esperienze dell’”Amico americano” e di “Hammett”, mentre la pellicola finisce per sfociare nei toni abborracciati e confusi di un thriller parzialmente raffreddato da simbolismi occasionali, spingendo nella sua caduta agli inferi anche l’essere soprannaturale, oramai svuotato della sua patina di trascendente religiosità.
Assistiamo così all’inevitabile urlo munchiano dell’angelo caduto che, confrontato con gli orrori di una realtà trasfigurata dalla visione di un’arte pronta a cogliere le lacerazioni interne dell’animo umano, si appresta a precipitare all’inferno senza aver avuto il tempo di conoscere il male, messo a confronto con istinti sempre più imbevuti di parossistica violenza.
Opera discontinua dunque, sicuramente non all’altezza del primo episodio, anche perché mancante della scrittura dell’alter ego del regista, Peter Handke, ma non totalmente priva di fascino e di suggestioni narrative, all’insegna di un cinema totalmente depurato dei momenti più scontati della drammaturgia tradizionale e tendente ad un rigore narrativo non sempre conseguito nella sua pienezza.

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