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El bar

Regia di Alex de la Iglesia vedi scheda film

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La recensione su El bar

di scapigliato
9 stelle

La paura cambia le persone, dice Blanca Suárez. No, risponde Mario Casas, la paura mostra chi siamo davvero. Se volessimo cristallizzare il momento concettualmente basilare del film di Álex de la Iglesia sarebbe questo rapido scambio di battute tra i due protagonisti centrali dell vicenda. Tra le tante riflessioni che il film ci propone, la più incisiva è proprio questa. Dopotutto El bar racconta di un gruppo di persone diverse per provenienza sociale e culturale tanto quanto per carattere e temperamento che si ritrovano loro malgrado imprigionati in un bar perché da qualche parte là fuori c’è un cecchino che ha deciso di amazzare tutti coloro che hanno l’audacia di uscire in strada. Questa situazione di assedio, di cattività involontaria, di prigionia mortale, porta i vari personaggi a sfoggiare il peggio, ma anche il meglio, di sé.

E quindi, daccapo: la paura cambia le persone o solo mostra chi siamo realmente? Il cinema esperpentico del maestro iberico raggiunge una nuova vetta estetica e sociale – tale era l’obiettivo di chi l’esperpento lo inventò, ovvero, Ramón María del Valle-Inclán – proprio grazie alla animalizzazione dei personaggi. La cattività forzata e il presagio di morte sicura, trasformano gli avventori in bestie, non tanto per cattiveria e famelicità reciproca, quanto per la loro deumanizzazione estetica. Sporchi, feriti, rattoppati, unti e molto altro ancora, i personaggi che ci vengono introdotti all’inizio del film perdono la loro figura umana e sociale per diventare animali, bestioline, “bichos” direbbero in Spagna, o meglio ancora, “esperpentos”, mostriciattoli.

E se questa animalizzazione non fosse una trasformazione, ma l’emersione della nostra vera natura ferina? È il secondo dubbio che instilla Álex de la iglesia nello sviluppo della vicenda, lasciando nelle peripezie successive ogni ipotesi di risposta. Risposta che non si trova nel finale, troppo lieve, poco esplosivo, con un personaggio che vaga solitario nella folla come “l’uomo” di Poe. Nonostante questi ultimi secondi, questi pochi fotogrammi che ci separano dai titoli di testa, il resto del film è sporco, disperato, cattivo, ridicolo e grottesco come ogni deformazione dell’umano deve essere.

Il regista infatti, riesce come sempre a creare un’opera d’arte come nessun altro è in grado di fare. I movimenti di macchina, la messa in scena, il montaggio, la plasticità di gesti, pose e azioni vanno a nozze innanzitutto con il testo, come sempre firmato dal regista insieme al fido Jorge Guernicaechevarría, e con i volti incredibili che de la Iglesia riesce a riunire ogni volta che dirige un film: Blanca Suárez, Mario Casas – ormai suo attore feticcio, Secun de la Rosa, Carmen Machi, Jaime Ordóñez, Joaquín Climent, l’argentino Alejandro Awada e la grandissima Terele Pávez, qui alla sua ultima collaborazione con Álex de a Iglesia prima di andarsene nell’agosto 2017. Queste facce, i loro corpi, le loro animalizzazioni e caratterizzazioni più esperpentiche, guidate da un testo come al solito tra il grottesco, il brillante e l’horrorifico, rappresentano al meglio questa discesa, letterale e reale, nele fogne dell’umano in epoca di crisi e fobie collettive.

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