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Vamos a matar compañeros

Regia di Sergio Corbucci vedi scheda film

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La recensione su Vamos a matar compañeros

di scapigliato
8 stelle

“Levantando en aire los sombreros, ¡Vamos a Matar, vamos a matar, compañeros!”, al suono di queste parole accompagnate dall’azzeccato motivo di Morricone diretto da Bruno Nicolai, ancora oggi ci si lascia andare volentieri ad un’idea di insurrezione. Chi ha vissuto l’epoca non dimenticherà l’eco che il film ebbe sulla stampa di sinistra, su “Lotta Continua”, su “Potere Operaio”, e su ogni ragazzo che credeva negli ideali pacifisti di una rivoluzione popolare dal basso. Un film che ancora oggi non perde incisività, seppur non sia né il miglior film di Corbucci né il miglior tortilla-western, la cui palma resta saldamente a “Quién Sabe?” di Damiano Damiani. I tortilla-western, con cui si catalogavano non tanto i film di ambientazione messicana o con contenuti rivoluzionari, bensì quei film che la Rivoluzione proprio l’avevano messa al centro del discorso narrativo, che poi ovviamente declinava anche in quello contenutistico. Per esempio pure in “Anda Muchacho, Spara!” si parla di peones e di rivoluzione, ma non è come rendere la Gloriosa Revolución il metatesto con cui leggere e rivedere il film. Anche “Requiescant” di Lizzani, con gli impegnati Lou Castel e Pasolini tra gli attori, è sì un film politico, ma non ha caratterizzato l’intera pellicola con gli schemi, i moduli, l’iconografia e i personaggi della rivoluzione. L’operazione di Corbucci è comunque di quelle spurie rispetto al modello di Damiani. Qui infatti, seguendo le tracce del “mercenario” che era nell’omonimo film dello stesso regista, Corbucci, Franco Nero è un avventuriero disilluso e affarista con una buona dose di humor. Lo stesso Tomás Milian che nei panni di El Blasco si distanzia dai precedenti Cuchillos sollimaniani per essere un revolucionario sulle righe, è un personaggio callejero, picaresco, “romanesco”, brillante, il cui turpiloquio aveva all’inizio condannato il film nella bigotta Italia conservatrice. Poi tutto passò, e il film vide la luce anche se deprezzato di alcune battute e scene troppo estreme. Eppure Corbucci, che di iperrealismo ne sa qualcosa avendolo esasperato ed amplificato rispetto il modello leoniano, non indugia troppo sul sangue e le torture, preferisce bypassare. Certo non si ferma davanti al culmine di una delle migliori coreografie sparatoriesche del nostro spaghetti-western, crivellando di colpi il General Mongo di José Bodalo. La scena è tra le sequenze finali del film ed è padroneggiata da una violenza del linguaggio filmico, tra montaggio, inquadrature virtuose e zoommate varie, che la rendono un’esempio da antologizzare. L’amata gun machine di Corbucci presenzia nuovamente come segno di anticonvenzionalità e progresso civile che però tutto ammazza e distrugge. La mitragliatrice, che in confronto a fucili e pistole è un chiaro segnale di superiorità virile, è imbracciata con furia e trasporto animalesco da Franco Nero in più occasioni. Ma è comunque lo humor, non lapidario alla Eastwood ma popolaresco, a segnare il registro del film che non virerà mai verso il dramma, il mélo o il western duro e puro. Anche i personaggi più sanguinari, il generale di Eduardo Fajardo, il bandito José Bodalo e soprattutto lo strafatto killer dandy di Jack Palance, motivano i loro crimini con colore grottesco. Allora uccidere un peón perché non vota per Diaz non è più un momento tragico, ma una postilla. Allora torturare i xantistas per poi ucciderli non è più una crudeltà nauseante, ma un partita a briscola con gli amici. Allora liberare una talpa sulla pancia di El Basco perché gli perfori le budella non è più sadismo, ma un gioco. Distorto il testo secondo questo registro brillante, i momenti solenni di presa di coscienza della lotta rivoluzionaria si stagliano sul resto del film e sulla puerilità di chi ci gira intorno alla rivoluzione. Dai rurales, ai banditi rivoluzionari, ai rivoltosi pacifisti, ai killer prezzolati e ai venditori di armi, tutti sono figurazioni di un mondo grottesco che non ha più speranze e vive di rendita. Solo il professor Xantos di Fernando Rey preserva una dignità che gli altri non hanno. Anche El Basco di Miliam trasgredisce al codice rivoluzionario, quello della cieca fiducia in chi comanda, e sentenzia “...io l’onore non ce l’ho”. Se per onore molti compiono atti criminosi o si sperzonalizzano per una causa, l’assenza di tale onore rende l’uomo un Uomo. Dall’uomo Storico all’uomo della storia, la intrastoria tanto cantata dagli autori spagnoli de la generación del ’98.
Rimane il fatto che “Quién Sabe?” resta il primo termine di paragone per gli spaghetti-western di questo tipo, con cui si confrontò genialmente pure Leone, e il suo “Giù la Testa... Coglione!” infatti, segue a ruota il film di Damiani per perfezione tecnica e visiva e soprattutto per la riflessione attenta ed originale che fa della Rivoluzione in senso lato. Corbucci con questo tortilla segna l’inizio di una sua involuzione del genere. I tempi tragici e disperati di “Django” sono finiti, è arrivato il “messicanaccio” popolaresco di Tomás Milian (qui in una delle sue caratterizzazioni più riuscite, un ruolo che fa una carriera) che prelude al Monnezza e con cui Corbucci girerà tre dei suoi prossimi quattro spaghetti-western, tutti dal tono leggero. Il sodalizio con Franco Nero s’interrompe, si dice proprio per motivi nati sul set di “Vamos...”, e l’attore di Parma girerà spesso con Enzo Castellari sia i suoi ultimi western sia altri film tra il poliziesco e l’avventuroso.
Di “Vamos...” resta l’amore per la Rivoluzione, quella della coscienza, che troviamo affidata alle parole sì retoriche, ma non pedanti di Fernando Rey. Una rivoluzione che parte dal basso e non dall’alto. Che crede nella compartecipazione pacifica e civile dei deboli, e non nella loro insurrezione armata. Monito chiaro e senza fraintendimenti il discorso di Rey prima di consegnarsi a Mongo. Forse il modo di lottare dei suoi ragazzi è adatto ai tempi che corrono (nel West come nei ’60 e ’70 europei), ma lui, forse troppo vecchio, non tollera ugualmente quella direzione, quella piega violenta che potrebbe prendere la riscossa delle sue idee. Le idee non uccido, ma cambiano. Potremmo dire. Però, quel “Andiamo ad uccidere, compagni!” che urla Franco Nero chiudendo il film può essere ambiguo, può essere letto come un ribaltamento totale dell’idea che ha interessato tutto il film fino a quel momento. Certo potremmo dire che non ci è dato sapere che tipo di lotta porteranno avanti lo Svedese, El Basco e gli studenti del professore Fernando Rey, magari rifiuteranno le armi ed abbraccieranno la resistenza. Ma se anche questa chiosa finale è il preludio alla lotta armata, potremmo rileggere l’intero film come una completa disillusione sul cambiamento rivoluzionario, che poi fa sempre la stessa fine. Ma è anche vero che si tratta di un film, e non di una cronaca delle manifestazioni milanesi. Siamo a San Berdardino, in Messico, mica a San Babila. Siamo nel West, e qui si spara. E nessuno potrà toglierci il sorriso involontario che ci scatta sulle labbra all’udire quel richiamo di Franco Nero e subito dopo l’innalzarsi di un inno immortale che fa più o meno così: “Levantando en aire los sombreros, ¡Vamos a matar, vamos a matar, compañeros!”...

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