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I miei giorni più belli

Regia di Arnaud Desplechin vedi scheda film

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La recensione su I miei giorni più belli

di logos
8 stelle

Un percorso nella memoria di un uomo di mezza età, Paul Dédalus, che dopo viaggi di vario tipo, in lungo e in largo in qualità di antropologo, fino al Tagikistan, ritorna in Francia, dopo aver preso commiato dalla sua attuale compagna.

 

locandina

I miei giorni più belli (2015): locandina

 

Rientrato a Parigi, viene interrogato da un funzionario dei servizi segreti esteri in quanto deve render conto di un suo omonimo ebreo russo, nato lo stesso giorno, rifugiatosi in Israele e morto in Australia due anni prima. E qui, con l’idea di un doppio, si scatena nel personaggio tutta una ricerca introspettiva per cercare le ragioni della sua stessa identità esistenziale, che pare essersi nel frattempo frantumata, dispersa nello sguardo dell’altrove, sguardo peculiare dell’antropologo, in grado di distanziare tutto, anche il consueto e il noto, per scoprirne l’incantevole tipicità essenziale. E forse, come antropologo, ha fatto così anche con se stesso, dimenticandosi, estraniandosi, per prendere le distanze da un vissuto che ha lasciato depositare dentro di sé, fino ad assopirsi. E così, con il pretesto dell’omonimo, Dédalus è costretto a ricordare alla luce di un’identità di cui il funzionario chiede ragione. Ma l’atmosfera in cui si svolge l’interrogatorio, in un ambiente disadorno e interrato, è quanto basta per avvertirci che non si tratta di inscenare la soluzione di una faccenda burocratica, quanto piuttosto di rappresentare la condizione di un’esistenza sospesa, che solo ora, ritornando in patria, può riappropriarsi di sé, della propria temporalità, come identità vissuta e da ripercorrere per riaccendere la passione alla vita.

Mathieu Amalric

I miei giorni più belli (2015): Mathieu Amalric

 

E così i ricordi man mano si raccolgono in modo labirintico secondo il flusso di coscienza, andando ad amalgamarsi in tre nuclei fondamentali: l’infanzia e i suoi sedici anni, quando la propria madre schizofrenica si suicida; la sua giovinezza con i fratelli, i conflitti con il padre vedovo, l’amore filiale per la cara nonna omosessuale da cui va ad abitare fuggendo dalla casa paterna ma rimanendo sempre in contatto con il fratello e la sorella, per poi fare una gita liceale in Russia dove cede il suo passaporto a un ebreo della stessa età (da qui il problema dell’omonimia), fino all’incontro con la docente  Behanzin di Parigi, che lo introdurrà all’antropologia; il terzo nodo, quello più importante, è l’amore che nel frattempo nasce per la giovane Esther, che proseguirà con ardore e paure, con avvicinamenti e distacchi, sino a quando il rapporto verrà troncato per i continui viaggi di Dédalus, sempre più distanti e sempre più difficili da accettare per Esther, che nel frattempo si unisce con il migliore amico di Dédalus senza peraltro esiti postivi. Detto così, con le parole che so dire, il film non è reso certo per la sua bellezza e profondità. Cerco allora di fare qualche precisazione.

 

I tre nodi in cui si articola la ricostruzione della memoria non sono in un rapporto didascalico. Anzi. In ogni blocco ci sono delle fughe in avanti e dei ritorni all’indietro, di modo che la ricostruzione del vissuto diventa ondeggiante, passando per l’uno o per gli altri blocchi, quasi come in un labirinto, in cui la mente torna e ritorna sui suoi passi per meglio ricostruire la propria identità esistenziale.

 

Nella ricostruzione del ricordo, poi, non sempre ciò che viene visto è soltanto realtà, ma si può anche ipotizzare che sia in atto la ricostruzione stessa della memoria. E così diventano un misto di reale e onirico alcune scene capitali. Penso ad esempio al tipo di rapporto che nell’infanzia il protagonista ha con la madre, la quale sale su per le scale della casa con aria minacciosa mentre lui, in difesa dei fratelli, sta tutta la notte in piedi per impedirle che possa entrare nella loro stanza. Sempre surreale è il litigio tra lui e il padre, il quale con veemenza si dispera per i brutti voti del figlio adducendo che da quando è morta la moglie non esce più di casa e per tutta risposta gli viene gridato di trovarsi un’altra donna; indimenticabile la scena del fratello, che alla morte della madre prega il Signore perché diventi invisibile, e lo supplica di infondergli la convinzione di non credere più in lui (una scena se vogliamo pazzesca, che mette in risalto tutta l’angoscia di un credente, quasi come un Kierkegaard redivivo); anche l’incontro con Esther è del tutto incantevole, soprattutto per il modo in cui viene ripresa la giovane ragazza, esaltando la sua bellezza enigmatica e autarchica, orgogliosa della propria solitudine (ed è rimarchevole come il regista riesca proprio a far vedere come la realtà diventi un vissuto dai contorni fantasmatici proprio nel momento dell’innamoramento che si gioca nell’istante del tempo); un’altra scena è il dialogo che Dédalus ha con l’ormai defunta nonna al cimitero, che lo esorta a stare vicino a suo padre. Senza poi contare i riferimenti letterari, artistici, antropologici dalla Mead a Lévi-Strauss.

 

Quentin Dolmaire, Lou Roy-Lecollinet

I miei giorni più belli (2015): Quentin Dolmaire, Lou Roy-Lecollinet

 

Ma centrale resta questo amore impossibile tra Esther e Dédalus. Vediamo una Esther all’inizio misteriosa e indipendente, ma poi sempre più legata a Dédalus, fino a perdere il suo fascino iniziale a causa delle sofferenze patite per i suoi contini viaggi a Parigi e poi in paesi sempre più lontani. Un amore però che al tempo stesso è tenace,  costellato di feste con gli amici, ma che si nutre soprattutto di un rapporto epistolare fino a un vicolo cieco, quando oramai Dédalus sente che non ha più niente da dare a quella donna, perché oramai la sua vita da scienziato ha preso un destino diverso rispetto alla Esther, che invece non sa che farsene della cultura fine a se stessa (proprio lei, che conosceva così bene il greco da insegnarlo a Dédalus con le opere di Platone).

Quentin Dolmaire, Lou Roy-Lecollinet

I miei giorni più belli (2015): Quentin Dolmaire, Lou Roy-Lecollinet

 

Ma oramai il tempo è passato, eppure, proprio con platonica anamnesi, Dédalus, ritornato in patria, ha ritrovato nella sua interiorità quell’amore perduto nel tempo, ma che come un’idea platonica è sempre stato lo sfondo imperituro, intatto e intangibile che lo farà riaprire nuovamente all’esistenza, nonostante il tempo gli remi contro portando con sé, in un’altra bellissima scena surreale, gli stralci svolazzanti dell’opera platonica;

Mathieu Amalric

I miei giorni più belli (2015): Mathieu Amalric

non importa se il tempo passa, se tutto naufraga, quando centrale diventa il recupero profondo del proprio se stesso attraverso il libero slancio di una lotta amorosa…      

 

 

E' impressionante lo stile dell'opera: una regia compatta ma al tempo stesso sinuosa ed elegante, che riesce a calibrare lo sguardo introspettivo con la leggerezza della profondità; l'esistenza, colta in tutte le sue fasi temporali, è polifonica: la giovinezza, soprattutto centrale nel protagonista, ma anche quella rappresentata dalle figure adulte e anziane: il padre, la nonna e la docente antropologa; da non dimenticare poi le feste goliardiche, la figura del fratello che cerca e non cerca Dio, la presenza costante invisibile di ciò che si perde, raffigurata dal dialogo con la morte, la quale, ultima ma non ultima, è un ingrediente costante in tutta l'opera: la madre che si suicida, la morte improvvisa dell'antropologa, l'amore inteso come imminente perdita... Tutto, lo ripeto, è nel naufragio autentico, nel cui rischio, l'esistenza si ricorda di sè e si riapre come possibilità.

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