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Taj Mahal

Regia di Nicolas Saada vedi scheda film

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La recensione su Taj Mahal

di Spaggy
2 stelle

Nel novembre 2008, Louise, diciottenne francese, segue i genitori in India. La famiglia deve stabilirsi lì per motivi professionali del padre e Louise spera di riuscire a frequentare una scuola di fotografia locale, data la sua passione per le immagini e per il cinema. A causa di un contrattempo, Louise e i genitori sono costretti a pernottare più del previsto nel sontuoso hotel Taj Mahal, con grande disappunto della ragazza che, da brava ricca e viziata, ha cominciato ad annoiarsi. La sera del 27 novembre i genitori di Louise sono costretti a recarsi in macchina a una cena in una località a due ore di viaggio mentre la diciottenne decide di rimanere in hotel per leggere e gustarsi il dvd di Hiroshima, mon amour.

Tutti però sono ignari del dramma che sta vivendo la città di Bombay, da ore sotto l'assedio dei terroristi islamici. In un susseguirsi di attentati per le vie di una delle metropoli più popolate al mondo, i terroristi prendono possesso del Taj Mahal, costringendo Louise a cercare una via di salvezza per non sopperire ai colpi di fucile e alle esplosioni.

Stacy Martin

Taj Mahal (2015): Stacy Martin

 

Prendendo spunto da un tragico fatto di cronaca, Nicolas Saada, mediocre sceneggiatore e pessimo regista, imbastisce un lungometraggio che vorrebbe essere drammatico e carico di tensione ma che si trasforma in involontaria tragicommedia, ridicola e raffazzonata. Accanto a una confezione impeccabile, si trova infatti una storia che sembra ricalcare tanti thriller già visti con una donna minaccata dai cattivi di turni e costretta a far buon viso a cattiva sorte. Allertata del pericolo, Louise si chiude nel bagno della gigantesca suite che la sua famiglia occupa e si tiene costantemente in contatto con il padre (sai che originalità), chiedendo a lui, immerso nel caos della città, cosa fare e come comportarsi. Interpretata da Stacy Martin, le cui qualità recitative dopo l'esordio shock in Nymph()maniac tardano ad affermarsi, Louise risulta monoespressiva anche quando dovrebbe provare timore o terrore, compie gesti inconsulti come nel peggiore dei b-movie dell'Asylum e non mostra mai piena cognizione di ciò che le accade intorno. Anzi, con il broncio - unica espressione che all'attrice riesce bene - sembra anche essere scocciata dal non potere continuare la sua serata, propone di uscire dalla stanza per tentare la fuga e fa di tutto per farsi notare dai terroristi per prendere un caricabatterie, che userà sì e no per un minuto cronometrato (come caspita riesca a ricaricare la batteria di un Nokia N95 in così poco tempo e a parlare al telefono tutta la notte sarà al centro di una prossima puntata di Voyager). Come se non bastasse, le telefonate con i genitori sono condite da tutta una serie di ovvietà sconcertanti, abusate non si sa più quante millanta volte: il culmine lo si raggiunge però quando, in un crescendo di kitsch narrativo, per calmarla la madre le canta una ninna nanna (!).

Una volta che il Taj Mahal è in fiamme, la nostra Louise dei miracoli si affaccia sul balcone della sua camera al quarto piano facendo così la conoscenza di Giovanna, una sciroccata italiana in luna di miele che dal terzo piano cerca di capire se il marito lanciatosi nel vuoto scendendo da una fune di lenzuola (ovvio, alle finestre e dai balconi di un albergo in mano ai terroristi si fugge con un candido lenzuolo bianco passando inosservati) sia ancora vivo. Tra le due donne, ha allora inizio un continuo rassicurarsi sul fatto che ne usciranno sane e salve perché a detta di Louise "suo padre sta arrivando".

Nelle intenzioni un survival movie, Taj Mahal tira la corda della pazienza all'inverosimile, non si preoccupa di capire cosa stia veramente accadendo in India in quel momento storico e abusa degli attori comprimari, rendendole marionette. La stessa Alba Rorhwacher, una delle migliori interpreti del cinema italiano contemporaneo, appare stralunata e fuori parte, come se si chiedesse in continuazione che diavolo ci faccia in Taj Mahal.

Senza un minimo di approfondimento psicologico, sociale e politico, ma con la coproduzione di Rai Cinema (il che la dice lunga su come scelgano i progetti), Taj Mahal è talmente piatto e telefonato (qualcuno proibisca i crescendi musicali per anticipare un evento "catastrofico") da cercare nel finale la via della commozione ricattatoria, mostrando le immagini di repertorio di quella dannata sera del novembre 2008. Da evitare come la peste. 

 

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