Regia di Ericson Core vedi scheda film
Nel 2015, il nuovo segreto del cinema di successo mainstream è stato quello del remake/reboot/sequel con astuzia : giocare con le nuove generazioni, sfornando film che conservino lo spirito dell’originale, infarcendolo di richiami per gli aficionados e creando qualcosa di nuovo per gli spettatori più giovani. Da Mad Max a Star Wars, passando per Jurassic World e Terminator, finendo con Creed, il percorso è stato più o meno lo stesso. E il successo di critica e pubblico ne ha confermato la giusta scelta stilistica e registica.
Point Break si scontrava con un altro mostro sacro del passato, un film quasi perfetto di Kathryn Bigalow che lanciava definitivamente nello star system il compianto Patrick Swayze e Keanu Reeves, fatto di machismo, senso di fratellanza e confronto fra opposti che arrivano al loro punto di rottura dato dalla barriera della legge. Nessuno poteva credere che la versione 2016 potesse raggiungere l’apice del suo originale, ma la speranza di divertirsi al cinema nell’era in cui tutto è possibile visivamente rappresentava la vera forza motrice che poteva spingere la gente in sala. Purtroppo la realtà è un’altra. Il film di Ericson Core è scialbo, banale, basato su una trama alla quale manca il senso di molte scene e il collante di tutte le altre. Ha l’aspirazione di essere un modello new age di filosofica visione, ma si rivela un’accozzaglia di frasi sconnesse che sembrano prese a caso da un libro di Fabio Volo, la smemoranda del liceo e i baci perugina. Cade spesso nel ridicolo e nell’autoironia involontaria (“Un’idea può essere forte” “Mai quanto una baleninera norvegese” parlando del guru ecoterrorista a cui s’ispirano i neo criminali, ucciso mentre cercava di difendere delle balene). Vuol citare il senso di famiglia alla Fast & Furious ma non ha un grammo del significato di “gruppo” che si trova nella saga del buon Vin. Beh, ma come scrivevi all’inizio, lo sei andato a vedere per godere delle scene d’azione. Ah sì, giusto, quelle. Il primo momento di adrenalina l’ho provato verso l’ultimo quarto d’ora quando, non sapendo ancora quanto potesse durare quel travaglio visivo che chiamano film, iniziavo a sentire un bisogno sempre più urgente di andare in bagno, arrovellandomi se uscire prima della fine rischiando di perdermi forse l’unica vera chicca del film. Non è arrivata nemmeno quella e la mia vescica ha poi chiesto il suo pegno. In un mondo che vive di youtube, facebook e milioni di altri social dov’è facile gustarsi imprese sportive estreme, il lavoro che regista e co. potevano fare nel realizzare meglio quella parte fondamentale del loro film di certo doveva essere più curato. La vera pecca è il montaggio che uccide le gesta dei protagonisti e, soprattutto, degli stunt coinvolti per realizzarle. Mai un momento di suspance. Mai un’incertezza sull’esito del volo con la tuta alare, dell’arrampicata estrema o della discesa in snowboard dalla cima di una montagna. Nulla!
Recuperate “Don’t crack under pressure”, il bellissimo docu film di Thierry Donard, per capire cosa intendo e per gustarvi una sequenza infinita di spettacolari e incredibili sfide alla natura, compiute da amanti degli sport estremi, tanto esaltati in questo inutile Point Break ma poi, alla fine dei conti, il vero rischio lo corre lo spettatore in sala, annoiandosi a morte.
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