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Il suo nome è Donna Rosa

Regia di Ettore M. Fizzarotti vedi scheda film

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La recensione su Il suo nome è Donna Rosa

di scandoniano
3 stelle

Il barcaiolo Andrea, detto “O’ Canarino” per le sue doti canore, si innamora della bella Rosetta, figlia dell’antiquario Antonio, vedovo col pallino della nobiltà che insidia la Contessa Rosa de Bernardis, a sua volta bramata da altri pretendenti.

 

 

 

No, non siamo nella Venezia del ‘700, ma nella (farlocca) Capri del 1969. Il film è un pretesto per riunire insieme un bel po’ di fenomeni coevi: il ragazzino biondo vincitore dello Zecchino d’oro, i cantanti del momento Al Bano Carrisi e Romina Power, il belloccio di turno Stelvio Rosi, addirittura il presentatore del programma televisivo Settevoci Pippo Baudo, coautore della canzone Donna Rosa che oltre a dare il titolo al film è anche una delle canzoni più in voga proprio nel programma RAI. Un calderone ricchissimo cucinato dallo specialista del genere “musicarello” Ettore Maria Fizzarotti, che per riequilibrare sul versante comico affida alla coppia Enzo Cannavale – Nino Terzo qualche intermezzo che funziona. I protagonisti delle vicende però sono l’antiquario Antonio (Nino Taranto) e la subdola ma innocua Donna Rosa (Bice Valori), attorno ai quali girano le vicende.

Un film la cui ambientazione napoletana è fondante. E per certi versi anche credibile, per via dello stesso Taranto e di Dolores Palumbo, che hanno scritto la storia della commedia partenopea, ma anche di Giorgio (il già citato Rosi), il rampollo combinaguai doppiato (bene, per carità, ma con una cadenza al limite dell’irritante) da Carlo Croccolo, che fa il verso ai giovani perdigiorno altoborghesi partenopei, annoiatamente divisi tra la bibita nella Piazzetta di Capri ed il pokerino notturno.

Ad Al Bano, oltre che recitare, tocca perfino cantare in napoletano (più spendibile il repertorio classico napoletano rispetto a quello di Cellino Sammarco). Insomma un’accozzaglia di puerilità, che però il tempo ha intriso di un’aurea di simpatia e delicatezza che, anche alla luce di quanto  vediamo oggi in Italia, riabilita i musicarelli, prodotti magari banalotti ed approssimativi, ma anche portatori di leggerezza e garbo che sembrano svaniti  a soli 40 anni di distanza nella cinematografia del nostro Paese.

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