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La settima croce

Regia di Fred Zinnemann vedi scheda film

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La recensione su La settima croce

di spopola
7 stelle

All’origine del film, c’è il romanzo omonimo della scrittrice comunista Anna Seghers, adattato per lo schermo da Helen Deutsch. Ancora uno strettissimo rapporto fra cinema e letteratura dunque!!! Questa è anche la terza regia di Fred Zinneman, se non erro (sicuramente la prima della sua lunga carriera nella quale si possono cominciare a scorgere davvero i segni distintivi della sua personalità e del suo talento). Si deve anzi proprio alla caparbia determinazione del regista e al coinvolgimento attivo di Spencer Tracy come protagonista (la sua presenza fu fondamentale per far definitivamente capitolare la M.G.M. che era molto titubante e fortemente indecisa) se il film fu messo in cantiere ed arrivò felicemente in porto. Interamente girato in studio, nonostante le numerose scene “in esterno” (tutte meticolosamente ricostruite dentro i capannoni della produzione), si avvale della poderosa fotografia di Karl Freund (un chiaroscurato e suggestivo bianco e nero, davvero decisivo per delineare l’atmosfera di cupa oppressione che domina tutta la pellicola). Freund, con i suoi contrasti e le sue straordinarie luci, definì infatti magistralmente in ogni fotogramma, la contrapposizione “cromatica” fra tenebre e luce, metaforicamente utilizzata per rappresentare oppressione e libertà che è poi la tematica principale che permea tutta questa pellicola (a conti fatti sicuramente zeppa di nobili intenti programmatici, ma un po’ troppo arida nei risultati pratici), e contrassegna anche il percorso personale del protagonista (uno straordinario Spencer Tracy, appunto, che trova proprio nel personaggio del fuggiasco, l’ispirazione alata per realizzare una delle sue più memorabili interpretazioni, sicuramente fra quelle di più forte impatto emotivo di tutta la sua carriera). Il film è la storia di una fuga, quella di sette uomini che riusciranno a evadere, di notte, da un campo di concentramento nazista dentro al quale erano stati rinchiusi. L’azione si svolge nell’anno 1936 a Westhofen, e l’esito sarà quasi per tutti infausto. Inseguiti senza tregua dai nuclei dei soldati aguzzini che li avevano tenuti in prigionia, saranno infatti riacciuffati progressivamente uno dopo l’altro (uno dei fuggiaschi, vista preclusa ogni via d’uscita, si suiciderà gettandosi da un palazzo proprio per sfuggire alla cattura) per essere “crocifissi” - come condanna e monito - su croci appositamente erette nel campo di sterminio. Soltanto uno riuscirà a salvarsi, prima nascondendosi, e dopo cercando un momentaneo rifugio nella vicina Olanda, grazie a dei documenti falsi procuratigli da un amico. L’uomo troverà in effetti molti insperati sostegni (e anche il tenero, inaspettato amore di una cameriera che lo sottrarrà rischiosamente a una irruzione della Gestapo) proprio da parte di alcuni tedeschi “dissidenti” del regime, che lo aiuteranno nella latitanza. Il film si apre proprio sull’immagine quasi simbolica di quelle sette croci che ne rappresentano il filo conduttore, come se ci si trovasse in presenza di una travagliata Via crucis a più voci in progressiva ricomposizione: una costante reiterata quella della croce, che ritornerà ossessiva a definire l’esito di ogni “cattura” nella progressione temporale del racconto. E’ uscito nel 1944: la guerra era ancora in atto, e l’imprinting non poteva essere allora che sottilmente “propagandistico” (propaganda bellica, si chiamava), ma l’enfasi è trattenuta e possiamo quindi ben dire che si tratta di un risultato che si colloca a pieno titolo fra i più dignitosi esiti di quello che potremmo definire il cinema “progressista” (antifascista) del periodo. E’ certamente legato indissolubilmente al “tempo in cui è stato concepito” però, e rivisto oggi, se rimane intatto lo spirito umanitario e umanistico che lo pervade tutto, risulta invece di minore impatto proprio il sotteso discorso politico. Soprattutto disturba adesso “l’ingombro” della prevaricante voce fuori campo, spesso fastidiosissima, quasi disturbante per l’eccessivo uso che ne viene fatto (vizi dell’epoca, comunque). Fra gli interpreti, accanto al grande Tracy , si riconoscono (e si fanno apprezzare) Signe Hasso, Agnes Moorehead, George Zucco e la coppia Jessica Tandy/Hume Cronyn (che per la prima volta si trovano qui a lavorare insieme nello stesso film e che diventeranno poi – nella vita – una longeva, felice coppia rimasta inossidabile e senza apparenti cedimenti “fino in fondo”). Un giudizio di sintesi? Storicizzandola, si potrebbe azzardare. Assegnando alla pellicola un 4 stelle che ora però risulterebbero francamente eccessive. Mi fermo allora a tre (anche se il giusto equilibrio ne dovrebbe consigliare 3 e ½ sicuramente più equo e pertinente, ma non “disponibile” sul sito).

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