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Tutta colpa di Freud

Regia di Paolo Genovese vedi scheda film

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La recensione su Tutta colpa di Freud

di M Valdemar
4 stelle

No, non è colpa di Freud, né di Jung e manco di Rocco Siffredi se l'ultima fatica di Paolo Genovese è l'ennesima commedia italiana sull'ammore (toh, se ne sentiva proprio il bisogno!).
Banale, estenuante, noiosa, lunghissima (ben due ore: per dire che?); e stracolma di assurdità, il cui culmine è un tentato suicidio con annessa salvifica operazione completamente scollegato dal resto. Qua si blatera - solo ed esclusivamente come pretesto per il consueto grossolano aggrovigliarsi/trastullarsi di sentiment(alism)i in modalità fiction televisiva - di psicologia e psicoterapia (a mo' di barzelletta che nemmeno nei peggiori bar di Caracas), di figure paterne moderne un po' amici un po' analisti un po' troppo perfette (al massimo qualche simpatica leggiadra parolaccia, anche quando si scopre che la figlioletta diciottenne se la fa con un cinquantenne nonché proprio coetaneo), di legami familiari (che nemmeno nei peggiori incubi/quadretti da Mulino Bianco), di pseudoriflessioni sulle persone affette da handicap (sbalorditiva la morale, che giunge sul finire dei centoventi minuti: vanno trattati come fossero "normali").
D'acquitrinose questioni d'amorosi sensi, infine; e sopra ogni altra cosa.
Le (tediose) voci narranti delle tre sorelle, figlie - viziate e di papà - dell'analista Marco Giallini, introducono la storiella parlando delle loro disavventure relazionali: c'è quella lesbica (Anna Foglietta) che torna a casa da New York (location giusto per dare un tocco esotico) perché mollata dalla fidanzata, ed è intenzionata a convertirsi in eterosessuale; un'altra (Vittoria Puccini), fiera proprietaria di una piccola libreria che si rifiuta di vendere Cinquanta sfumature di grigio, passata da un poeta a uno scrittore a un giocoliere (il padre: «ma un geometra, mai?») finisce per innamorarsi di un sordomuto ladruncolo e permaloso; l'ultima, la più giovane (Laura Adriani) diventa l'amante di un architetto fallito più vecchio di trentadue anni.
Si possono ben immaginare gli sviluppi di cotanta creatività per un soggetto che vede tra gli altri la firma di Leonardo Pieraccioni. Ecco, si possono appunto immaginare - ed è veramente strano non venire smentiti - solo che talvolta il livello è ancora più basso di quello perlomeno "accettabile".
Su un impianto tipico (pensare che con una battuta si prende in giro la "solita commediola americana". Ah!), e con uno sfondo bucolico di una Roma insolita, ricercata(mente radical-chic), si accumulano situazioni al limite (del ridicolo, del credibile) - non di rado oltrepassandolo -, stereotipi cari al genere, meccanismi narrativi ed espedienti stranoti (opportune incredibili coincidenze annesse: vedi il personaggio di Claudia Gerini), partecipazioni "straordinarie" (tra gli altri: Maurizio Mattioli, Gianmarco Tognazzi, Edoardo Leo, il prezzemolino Paolo Calabresi). Insomma, l'andazzo è intuibile.
A molestare ancor più - o forse per cercare di risvegliare dall'inevitabile assopimento - accorre un'infinità di canzoncine pop invadenti dai motivetti melodici struggenti che fanno tanto mesti videoclip de noantri.
Tra le note positive, per così dire, l'assenza di volgarità gratuite - peccato che poi il prodotto rimanga appiattito e molto, molto garbato (insomma, niente erotismo anale, o altre "sporche" faccende freudiane) - ed un cast tutto sommato non disprezzabile (e qualcuno sembra finanche metterci impegno). Vinicio Marchioni, come spesso, si distingue: il suo sordomuto per atteggiamento e modo di vestire (camicia abbottonata fino al collo) ricorda vagamente il mitico Adrian Monk; Marco Giallini finalmente in veste di protagonista va in scioltezza per quanto il suo ruolo sia scritto male; Anna Foglietta ci mette grinta ed entusiasmo ma è costretta in modi, pose, battute e pensieri di una pochezza impressionante («l'identità sessuale è una cosa seria» le ripetono, salvo poi essere la tematica affogata in una pozza di gag perlopiù falliche stagnanti all'età della pietra); Vittoria Puccini spicca per grazia e naturalezza.
Dopo il dignitoso Una famiglia perfetta, Paolo Genovese ritorna sui livelli (scadenti) dei lavori precedenti. Inutile aggiungere altro.
Chissà come potrebbe oggi il padre della psicoanalisi trattare il tema dell'impotenza endemica della quale è affetta l'italica commedia.







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