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La vida después

Regia di David Pablos vedi scheda film

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La recensione su La vida después

di OGM
8 stelle

La vita dopo. Ciò che se ne va annulla il prima e costringe a cambiare, a costruire il nuovo sulle fondamenta di un vuoto. Silvia è madre di due bambini, Rodrigo e Samuel. Ed è una donna sola. La prima grande perdita è quella del padre, l’amato nonno dei suoi figli. Poi anche lei si perderà, mentre i due ragazzi si riveleranno incapaci di crescere come veri fratelli. Il nulla è un vortice, che esercita la sua forza centrifuga su tutti coloro che su quell’abisso si affacciano sgomenti. La spinta è verso la disgregazione, l’astio ingiustificato, la sensazione di essere circondati da estranei, forse da nemici, e di non poter contare sull’aiuto di nessuno. Questo film procede con i passi lenti e il fiato grosso di chi si affanna, senza convinzione, lungo una strada sconosciuta: un cammino disperatamente privo di senso, alla ricerca di qualcosa di tanto essenziale quanto ignoto. Forse il desiderio è non arrivare da nessuna parte, cancellando pure le tracce dietro di sé, per non essere inseguiti, e scomparire per sempre. Silvia distrugge le sue vecchie fotografie. Poi, un giorno, fugge all’improvviso. Chi la ritroverà, farà finta di non averla vista. Il traguardo deve restare inesistente, invisibile, eternamente aperto, per perpetuare quel vano vagabondaggio al quale si è ridotto il senso intero dell’esistenza. Il Messico delle vaste distese deserte si riflette in spazi interni senza intimità, angusti e semibui, privi di forma e di calore. Le stanze delle case sono come rifugi temporanei, perfettamente permeabili al risucchio del vuoto sconfinato che si estende fuori, da dove giungono i richiami della pioggia, della morte, dell’oblio. Sono queste le voci che spingono ad uscire, per andare lontano, e non tornare mai più. È raro che il cinema latinoamericano decida di abbracciare la negazione con uno slancio così torbido e viscerale, con la stanchezza di chi ha già troppo vissuto, una spossata rassegnazione che, in questo caso, investe anche i più giovani. La luce del Sud è diventata il bagliore rugginoso di un sole bruciato,  e nella sua ombra gli esseri umani sono tizzoni spenti. Si può dipingere la desolazione con i colori smorti che sembrano tracimare dal fondo di tante anime scottate. David Pablos intinge il pennello in quel sedimento che, sulla pelle, impedisce alla speranza di attecchire. La carne è un fango livido e sterile, deprimente da guardare, dura rappresentare. Sarà per questo che la narrazione è come svogliata, arenata alla reticenza di chi ha paura di dover dire, in due parole, la propria miseria. Quella che pende dalle occhiaie di Rodrigo adolescente. E che, nel finale, chiude le labbra acerbamente sagge di Samuel.

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