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Rio Conchos

Regia di Gordon Douglas vedi scheda film

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La recensione su Rio Conchos

di scapigliato
8 stelle

Due sono le immagini emblematiche del film, che sono poi anche la cifra con cui ci viene consegnato alla storia del genere: l’incipit e l’epilogo. Il film infatti si apre con una scena in campo lungo, dove in primo piano un gruppo di indiani sta celebrando un rito funerario mentre in lontananza la silohuette di un uomo col fucile si erge sul crinale – invece che gli indiani, come tradizione vorrebbe – e spara uccidendoli tutti. L’uomo è Richard Boone, con quella faccia un po’ così, che non può che ricoprire ruoli duri, burberi, se non da cattivo. In Rio Conchos è Lassiter, un nostalgico sudista che vuole accoppare gli indiani perché assassini della sua donna. L’epilogo invece è il grande incendio purificatore che avvolge nelle fiamme la carcassa di una casa colonica in costruzione, centro di un nuovo sud razzista ideologizzato dal Colonnello Modrey interpretato da Edmond O’Brien. L’eleganza di O’Brien cozza con la follia e la violenza compulsiva del nuovo campo militare sudista, gestito implacabilmente da una ferrea corte marziale, ultimo baluardo per piccoli uomini devirilizzati in caduta libera verso l’abisso. All’interno di queste emblematiche scene madri, c’è un’intero film, bizzarro, dai toni ora drammatici ora grotteschi, con una modulazione narrativa tipicamente western, c’è un viaggio da affrontare, sviluppata sullo sfondo della Monument Valley. Ma non sarà la stessa Valley cara a John Ford, dove la grandezza dei suoi massicci e l’imponenza dei suoi pinnacoli richiamavano la grandezza e l’imponenza dei suoi eroi, da Henry Fonda a John Wayne. Qui, in Rio Conchos, la Monument Valley, ugualmente esaltata da un’abile fotografia, è piuttosto uno scherzo della natura, inospitale, indomabile, a tratti perfida, che si staglia sullo sfondo come uno scenario funesto, teso a sottolineare la piccolezza di questi antieroi, la loro esclusione dall’olimpo degli dei del West.
La regia di Gordon Douglas è sicuramente notevole. Le scene hanno uno spessore drammatico anche quando non c’è in ballo la vita di nessuno, e la tensione ideologica che innerva il razzismo di molti personaggi è resa con una recitazione sclerotica, accompagnata da una narrazione febbrile giocata tutta sul cambiamento di tono. Difficile trovarci un eroe qui dentro, in questa marmaglia di spregiudicati, ma ugualmente difficile trovarci un’antieroe come saremmo abituati in un film di Clint Eastwood, di Leone o Peckinpah. Qui, invece, da Richard Boone in avanti, tutti sono uomini compromessi con la propria ideologia. E il sussulto di riscossa finale non riuscirà a sterzare l’ideologia di base, lasciandoci personaggi più oscuri che chiaroscuri, ma irrimediabilmente molto western – nel senso critico che si può dare al termine tenendo presente il Destino Manifesto, Owen Wister e Theodore Roosevelt.

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