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Il capitale umano

Regia di Paolo Virzì vedi scheda film

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La recensione su Il capitale umano

di lorenzodg
8 stelle

Il capitale umano” (2014) è l’undicesimo film del regista livornese Paolo Virzì.
    “Hai scommesso sulla sconfitta del Paese e hai vinto…”, “Abbiamo vinto”. Il dialogo a denti stretto tra Carla e Carlo Bernaschi è solo una (la) direzione di una vicenda composita e intersecata ambienta in una zona amorfa (un’Italia come un’altra) come può essere la Brianza che s’avvede di se stessa ma non dei suoi personaggi mentre la festa comincia ad impazzare tra invitati di lusso, leccapiedi di ogni culto, straricchi di ciascun mondo, strafottenti di qualsiasi banca e taglienti di misure colme. In un Paese ridotto a come si vuole (e non si desidera) c’è un gruppo folto che sa la ride, la racconta giusta, fotte tutti e come un vigliacco perenne s’addormenta (in sonni tranquilli) in un barlume spaventoso di cinismo (mai assopito) che incanta sempre e sputa ‘scazzi’ forvianti e godurie di denaro a caterva. E’ l’Italia ridotta al lumicino (così si pensa) che elargisce sempre molta speranza (e reddiditi senza sosta) verso un misuglio unforme e composito di ‘gentaccia’ avveduta che di consigli d’amministrazione, finte riunioni, catarsi finanziarie e immaggini di finta cultura (per altri) sono pieni mentre chi guarda (o meglio chi resta impotente al tutto) ne ha piene le scatole di coglionazzi-mastodondici-riccocazzari benestanti che hanno solo il gusto di se stessi e del propro io. Tutto il resto è solo ‘capitale umano’ che ha sempre un prezzo ed è possibile sempre pagare (mai tirarsi indietro e mai dire no a richieste di salvezza di svariati centinaia di migliaia di euro) per salvare la reputazione, la propria figlia, il proprio figlio, una notte amorosa fuori testo e una chiavetta che s’alza di prezzo senza saperlo.
    Il nuovo film di Virzì poggia sul libro omonimo dello scrittore di Chicago Stephen Amidon e ambientato in una Brianza intristita, schizzata, onnivora e truffaldina. Un anteposto, un notturno, una strada e un uomo in bicicletta: tutto può cambiare in un incidente, niente può sorgere come nuovo mentre i misantropi dello sfruttamento incalzano e si incontrano senza sapere ma facendo finta di non conoscersi. Il gioco acido, viscido e puzzolente è formato da due famiglie gli Ossola e i Bernaschi, le madri, i mariti e i rispettivi figli più qualcuno che gira intorno e vacui corpi che vogliono andare lontano (molto lontano) dentro un Paese ridotto all’osso (o da quelle parti). I cognomi avranno un significato, le partite un sintomo, gli sguardi una nullità e le parole sassi nell’acqua che formano onde ma si spengono da subito in una calma festaiola. E’ l’epilogo dell’Italietta di oggi e, forse, come di ieri (come, ad esempio, ne “L’industriale”, 2011, di Giuliano Montaldo) dove si fa festa (di parte) senza tante ragioni ma con gusto inverecondo. “Ridono anche se gli dai il bastone del cane” dice Carla a suo marito. Si sghignazza senza motivo ma fa bene farlo per ‘distinguersi’ dal resto fino a quando il denaro facile scorre a fiumi e finchè il perdente non è mai sprovvisto di puro dilentattismo e di tasse da pagare.
    La storia scorre su pi più livelli intersecando i personaggi di Dino, Clara e Serena (in capitoli successivi) da inquadrature diverse e personali e dove gli incastri coincidono quando quello che non vedi per uno viene riproposto pèr altri. Un bel gioco di sceneggiatura vedere le angolature di ognuno e i discorsi che non senti come i buchi di alcune situazioni: manca il gusto del thriller fino in fondo e l’epilogo di storia ‘vera’ con il resoconto di didascalie e spiegazione del titolo (del film) accomodano (amaramente) la parvenza di tutto che (può) fini(re)sce bene (per chi di gloria si compiace). Tutti perdenti fino a quando (non versi ‘il capitale umano’) e fino a tanto (non sborsi quello che chiedono con un bacio -finale-). E’ la sconfitta di ciascuno che fa ribrezzo (sì certamente) ma che si compiace di tutto quello che vive attorno: basta vivere isolati (e in altura) e il (furbissimo) Carlo non vede l’ora di fare crollare tutto per vincere mentre il ‘coglionazzo’ Dino vuole investire l’impossibile (chiede prestito bancario per non capire più nulla) cercando di vincere quello che gli altri vogliono perdere. E tra finanza bancarie, quotazioni in borsa, salotti buoni, tavoli utralaccati, partitine a tennis con immobiliari in saldo, il gioco Bernaschi colpisce nel segno (chi sa poi chi a sua volta arride al riso di un altro…) mentre gioiscono e si ritrovano tutti e oltre la siepe di altura una nebbia si allunga lugubre in un Paese allo sfascio (rifaccio il conto che punto ancora…).
    Ad un certo punto (dopo un’ora di film) l’inquadratura fa vedere il nome di una via: ‘Alcide De Gasperi’ e subito viene da pensare che ‘qualcosa’ (ironia della sorte se la cosa è voluta) è veramente cambiato. Da statisti a personcine spavalde e truffaldine che ‘ballano’ sui cadaveri altrui.  Il film di Paolo Virzì (produzione italo-francese con Rai Cinema, Indiana Production e Banca locale) ha una forza connaturata e mescola lo stile ‘acerbo’ della vera commedia con una struttura narrativa ‘realista’. Il regista rispetto ad altre pellicole pigia l’acceleratore sul ‘sociale’ e sulla ‘localizzazione’ dei fatti (tra Monicelli e Risi) riuscendo a colpire il segno generale; manca il colpo d’ala (per chi scrive) per far crollare veramente tutto e sfasciare il ridere di fiele degli sconosciuti invitati (anche i fratelli e le sorelle dispersi fanno festa pur di avere parte da prendere e lasciare ogni cosa a casa propria…). La regia articolata e mai dispersiva riesce a lavorare su ogni personaggio e il cast risponde in modo (quasi) compatto. Fabrizio Bentivoglio (Dino Ossola) –eccessivo nell’essere sfigato-, Fabrizio Gifuni (Carlo Bernaschi) –stuatuario e dirompente-, Valeria Bruni Tedeschi (Carla Bernaschi) –distinta e volubile-, Valeria Golino (Roberta Morelli) –disincatata e complicata-, Luigi Lo Cascio (Donato Russomanno) –volubile e amoroso-, Matilde Gioli (Serena Ossola) –isolata e libera-, Guglielmo Pinelli (Massimilliano Bernaschi) –capelli lunghi e slegato-, Giovanni Anzaldo (Luca Ambrosini) –arte cupa e amore subito-. Da segnalare la belle musiche di accompagnamento di Carlo Virzì.
    Lo sguardo registico di ognuno giustifica (o quasi) quello dell’altro e il dubbio di inganno e di prova oscurata non c’è. Sappiamo tutto e senza forse anche troppo ma il colpo della regia come effetto sui luoghi e ambienti rimane.
Voto: 7 +.

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