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Werewolf: La bestia è tornata

Regia di Louis Morneau vedi scheda film

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La recensione su Werewolf: La bestia è tornata

di scapigliato
8 stelle

Siamo più nei dintorni di Van Helsing (2004) che in quelli di The Wolfman (2010), con un’unica differenza: Werewolf. La Bestia è tornata di Louis Morneau non è uno sterile giocattolone come il film di Sommers, che è semplicemente un action-movie che usa l’iconografia horror senza avere nulla di perturbante né di orrorifico. Il film di Morneau invece, che gioca sul successo del film di Joe Johnston con Benicio Del Toro pur non essendone un sequel né un prequel, ha l’intelligenza da un lato di non prendersi sul serio, cosa che arrogantemente faceva Van Helsing mostrando tutto quell’inutile virtuosismo registico, quell’accozzaglia di effetti digitali inguardabili e tutta la protervia del cinema muscolare, e dall’altro lato sa giocare molto bene le carte tematiche del genere, usando simboli e figurazioni della licantropia per parlare di altro.

Werewolf. La Bestia è tornata – che in originale suona un po’ come “la Bestia è tra di noi” – è sì un bel giocattolone tra lo steampunk e l’action-movie, con cacciatori vestiti come cowboy – uno in particolare è la copia sputata del John Wayne di True Grit. Il Grinta (1969) – ed equipaggiati di ogni sorta di diavoleria meccanica manco fossero i nostri italianissimi agenti segretissimi. Fortunatamente carente nell’effettistica digitale il film sfoggia una serie di effetti speciali veri e sanguinolenti di grande efficacia. Budella, frattaglie, decapitazioni, amputazioni e monconi vari infestano l’intera pellicola, e oltre a darle un taglio molto carnale fanno da contraltare al serpeggiare dell’inquietudine dovuta alla licantropia. Infatti, altro aspetto non da poco del film è la trama a enigma tipica delle crime-stories per la quale ci è nascosta l’identità del licantropo, tant’è che ad un certo punto del film verranno sospettate ben otto persone e di conseguenza stigmatizzate in questo gioco all’identità segreta come se fosse un giallo alla I soliti sospetti (1995). Ma la plasticità ispirata del regista non si ferma alle truculenze effettistiche dei corpi massacrati. Infatti il film, tra sparatorie, inseguimenti e acrobatici scontri corpo a corpo, è un action senza fronzoli, godibilissimo, molto più efficace del giocattolone sommersiano.

Da ultimo, il mito del lupo mannaro è ben reso classicamente attraverso una dannazione e una colpa non volute, la confusione identitaria tipica degli adolescenti, rappresentati qui dal giovane Guy Wilson, corpo licantropico fin troppo perfetto, la sovraumana dote di forze brutali ingestibili – ulteriore segnale della riflessione carnale e adolescente del mito mannaro – il segreto di un passato che coinvolge i genitori, fino ad arrivare ad una nuova lettura interessante: il passaggio da Bestia cacciata a cacciatore di bestie. Una volta saputo gestire il dono, il lupo mannaro può essere a sua volta cacciatore di lupi mannari: quasi una didascalica rappresentazione del passaggio dall’adolescenza al mondo degli adulti. Ergo: grandi poteri, grandi responsabilità.

Film semplice e di puro intrattenimento, fatto bene e coinvolgente, con il suo wolf-appeal interessante e innovativo. Si lamenta l’assenza dell’elemento sessuale femminile – nonostante l’originale idea di un bordello in cui lavora la madre del protagonista Guy Wilson – che se fosse stato veicolato dal personaggio della ragazzina amata, più disinibita, più lasciva e più trasgressiva, avrebbe reso la pellicola ancora più carnale di quello che già, fortunatamente, è.

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