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Centro Histórico

Regia di Aki Kaurismäki, Pedro Costa, Victor Erice, Manoel de Oliveira vedi scheda film

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La recensione su Centro Histórico

di ed wood
8 stelle

Quattro registi dallo stile inconfondibile alle prese ciascuno con un cortometraggio dedicato alla cultura portoghese, in occasione della nomina di Guimaraes a capitale della cultura 2012. Quattro episodi diversi fra di loro per tono, ambientazione, durata, tematiche e forma, che vanno a comporre un interessante e variegato mosaico sul mondo lusitano.

 

L’apertura è firmata dal finnico Kaurismaki che, come prevedibile, è il meno interessato alla Storia e alla società portoghese. Eppure, col suo canonico quadretto di solitudine, silenzio, ironia laconica e piccole amarezze quotidiane, riesce a cogliere quei chiaroscuri, quelle penombre, quelle atmosfere malinconiche che hanno definito nel tempo lo spirito portoghese, quell’indefinibile senso di “saudade” che non si può spiegare ma solo sentire e, per mezzo dell’arte (un brano di “fado” come un corto di Kaurismaki), trasmettere.

 

Poi è il turno di Pedro Costa, nome di punta del cinema portoghese contemporaneo, che invece si addentra nei recessi più oscuri della memoria storica del suo Paese. In uno scenario fosco, angoscioso, fantasmatico, dalle tinte espressioniste, si inscena un dialogo che rievoca le pagine più drammatiche della politica portoghese, dal regime di Salazar alla Rivoluzione dei Garofani, fino alla questione del colonialismo. Il ricordo, il rimpianto, il rimorso, il peso del passato sul presente ne fanno l’episodio più tormentato dei quattro, reso ostico e opprimente anche dai dialoghi criptici.

 

A sorpresa, invece, il “realista magico” Erice (spagnolo) affida la sua ricognizione sul popolo lusitano alle testimonianze dirette di vecchi operai di una ditta tessile che ha chiuso i battenti dopo un secolo e mezzo, ma anche alla malinconia di una vecchia foto in bianco e nero, scandagliata nei dettagli per cogliere la tristezza e la dignità di quei volti di lavoratori umili, accompagnata dalle note dolenti di una fisarmonica. Quando il documentario si fa narrazione di una intera classe sociale, di un pezzo importante di Storia nazionale, ma anche poesia di sentimenti appartenuti a vite di cui nessun libro scolastico mai parlerà.

 

A differenza di Alfonso Henriques, il Conquistatore del Portogallo, eroe nazionale la cui statua è protagonista dello sketch finale dell’ultracentenario Manoel De Oliveira, dal tono leggero e candidamente ironico, ma non per questo banale. Il monumento viene letteralmente “conquistato” dalle fotografie dei turisti, facendo soccombere il glorioso Conquistador ad un doppio ineluttabile destino di reificazione: prima diventa una statua, poi una pura immagine riproducibile all’infinito. In questa semplice idea, c’è tutta la saggezza di De Oliveira, la sua disincantata riflessione sullo scorrere delle epoche, sull’avvicendarsi dei sovrani, sul declino degli imperi, sullo scacco della memoria, sull’abisso del Tempo. Con un retrogusto amaro, “vinto”, tipicamente portoghese. Sic transit gloria mundi.

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