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Il suono intorno

Regia di Kleber Mendonça Filho vedi scheda film

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La recensione su Il suono intorno

di ROTOTOM
8 stelle

Recife. Interno, giorno.

Il suono riempie ogni buco lasciato libero dallo sguardo.  Lo piega e schianta contro un orizzonte invaso da condomini ultramoderni, astronavi blindate atterrate su un pianeta a caso. Si comincia a parlare di questi o perché il lavoro sul suono di Klebeh Mendonça Filho  (il suono intorno è il suo esordio al lungometraggio) è superbo. Latrati di cani, rollio di automobili, elettrodomestici, aggeggi ad ultrasuoni per scacciare i latrati di cani, urla e televisioni, radioline, ascensori e cessi. Un continuo rimbombo opprime gli occupanti degli appartamenti di lusso di un supercondominio della città verticale di Recife. Case per bianchi. Dove i neri sono o servitori in ciabatte o vagabondi e scalzi. O spacciatori.
All’ombra del complesso di condomini si adagia la strada che porta ad una zona popolare, appena al di là del muro di contenimento dove i bambini giocano al pallone in sudici vicoli sognando di emulare un idolo del calcio.
In questa prigione borghese vivono una non vita i personaggi del film, ossessionati dalla sicurezza che l’elevazione in altezza delle abitazioni, le inferriate, i videocitofoni e i muri non riescono a garantire.

scena

Il suono intorno (2012): scena

Appare subito chiaro, nelle riprese dal tetto del grattacielo verso altre torri come le storie siano solo una parte del tutto, una porzione dell’universo di paranoia condivisa che è la salvaguardia della propria vita a costo di non vivere affatto.  Il distacco che la società brasiliana ha subito nel tempo è la separazione tra benestanti (pochi) e indigenti (tutti) votati a riappropriarsi di ciò che è stato loro tolto. Il risultato sono i quartieri fortezza, le armi, e le mura di cinta che più che a non fare entrare servono a non fare uscire. Il muri bianchi degli appartamenti, candidi nel loro trasmettere la sicumera dell’agiato borghese si scontra con il sudicio nulla della strada.
Oltre però non si va. Lo sguardo di Filho non si insinua mai dietro l’angolo (solo una rapida digressione in una località agreste che scardina ulteriormente le scarse sicurezze dei personaggi), rimanendo confinato in una ulteriore gabbia invisibile che è quella della paura. Appartamento, ascensore, strada e ritorno. Le vite si consumano  più che nella paura per l’ incolumità,  nel tedio spaventato del perdere il controllo e gli oggetti che come feticci di un moderno voodoo quel controllo permettono di mantenerlo.  L’unica apertura è verso il cielo, dal tetto del palazzo che non permette di vedere le contraddizioni di cui esso stesso è totem ideologico.
Nella Recife dei borghesi, qualcuno è più borghese di altri. Esiste il possessore della strada e degli appartamenti dei condomini, un anziano possidente arricchito, solo e potente. Un feudatario moderno, che spalma saggezza, pretende rispetto, si cura della sicurezza dei suoi feudatari/condomini.
L’assunzione di una squadra di vigilantes che sorvegli il pezzo di strada di cui egli è proprietario, è il turning point per il precipitare degli eventi verso una chiusa sorprendente ma a dire il vero un po’ forzata e non suffragata nel resto del film da alcun indizio per portare la fine verso la tragedia. Il colpo di scena finale – che non spoileriamo – è forzato non essendo  il personaggio dell’anziano benestante un personaggio centrale.
Ma questo non inficia il valore di un film dallo sguardo lucido su una società totalmente in balia della propria paura. Le immagini di Mendonça Filho sono bellissime quanto cariche di giudizio e sguardo tagliente sulle contraddizioni che il benessere ha creato nel paese a scapito della maggioranza della popolazione. Fortemente antiretorico e quasi minimalista nella messa in scena, il film vive sul generare sulla percezione dello spettatore un costante senso di pericolo, qualcosa di imminente che non si verifica mai ma che sfianca i personaggi del film in un’attesa dell’inevitabile fino a rendere la vita impossibile.

ll suono che filtra all'interno dei loculi bianchi è quello della vita, testimone della stessa infelicità e colonna sonora della società tumulata nel benessere.

Metafora dell’uomo moderno che si crede libero solo perché si è costruito da sé una gabbia a propria immagine e somiglianza, il film di Filho è una riuscita commistione di fiction e solido sguardo documentaristico che ne eleva il valore al rango di prezioso documento antropologico. 

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