Regia di Giorgio Bruno vedi scheda film
L’ispettore Costa è impulsivo, ironico e un po’ guascone. La sexy ispettrice D’Aquino è talmente sciantosa da farsi la messa in piega tra un’inquadratura e l’altra, anche se nella stessa scena. Cosa possono avere in comune questi due seriosi superpoliziotti, chiamati a dare la caccia a un maniaco mentre intorno a loro impazza una tormenta filmica in forma di missaggio sonoro (suoni che coprono musiche che coprono dialoghi) e fotografia oltre le barriere dello smarmellamento televisivo? Semplice: muniti di occhiali da sole anche quando è buio, entrambi sono manichei e privi di qualsivoglia conflitto, fatta eccezione per una cena mancata dal primo e qualche relazione consumata a casaccio dalla seconda. Nelle loro esistenze a due dimensioni manca anche l’intuito, tanto che l’identità del killer rimane misteriosa solo ai loro occhi - al pari di ogni snodo dell’indagine che richieda l’utilizzo della deduzione - mentre a quelli dello spettatore l’assassino è chiaro dal momento della sua entrata in scena. Allora Nero infinito di infinito ha solo una serie di errori, tenerezze (leggi: camei di Castellari, Deodato e Fragasso) e risate. Nella scelta dei raccordi di montaggio si gioca a “pari o dispari”, i fuori fuoco si accumulano e i continui primissimi piani in movimento sui volti ottengono soltanto un respingente effetto-loop. La violenza è efferata e disturbante, ma non può bastare a salvare la barchetta dal naufragio. «Finale un po’ prevedibile, non credi?»: sì, lo crediamo anche noi.
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