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Bellas Mariposas

Regia di Salvatore Mereu vedi scheda film

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giancarlo visitilli

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La recensione su Bellas Mariposas

di giancarlo visitilli
8 stelle

Non più la Sardegna rurale di Ballo a tre passi (2003) prima, e quell’altra di Sonetàula (2008) poi. Questo terzo lungometraggio diretto da Salvatore Mereu e ispirato dall’omonimo romanzo di Sergio Atzeni, di agreste conserva la descrizione di una periferia, quella di un quartiere di Cagliari, tanto famigliare a quella di Scampia, dello Zen e di tanti luoghi ad ogni latitudine geografica e umana. Lì dove abitano tanti come l’undicenne Caterina, detta Cate, sempre in giro con la sua migliore amica, Luna, che sogna di fare la cantante e non vuole finire né come la sorella Mandarina, rimasta incinta a tredici anni, né come Samantha, ragazza oggetto. C’è anche Gigi, “il vicino di casa da sposare”, un nerd, figlio di una rockettara, ricercato da Tonio, il fratello maggiore di Cate, che lo sta cercando per ucciderlo. Cate provoca, interpella e non distoglie mai il suo sguardo da quello dello spettatore. Guardando in camera, confessa: “Voi non sapete cosa vuol dire vivere a casa mia”. Perché la casa dell’adolescente è abitata, anzi intasata, da un padre che “non ha mai lavorato una giornata intera”, una madre che “arrotonda” la pensione di invalidità, lavorando dentro e fuori casa. Fra i due una schiera di bambini, adulti e più giovani, fratelli, sorelle, cugini e nipoti, in ogni angolo di un appartamento che conserva l’angustia per corpi senza misura.
Quello raccontato da Cate è un mondo spietato e senza tregua, in cui lei e la sua amica vivono come due belle farfalline (il bellas mariposas del titolo), ostinate a librarsi in mezzo alle brutture, che prendono forma e materia attraverso case, palazzi, scale e un’umanità senza colori e odori, ma che ai loro occhi, nonostante la loro naturale nefandezza, diventano bellezze. E’ una visione stemperata, ironica, pura quella a cui si affida Mereu. Nella quale è possibile riconoscersi “vergini e cantanti”, al modo delle puttane dagli “occhi grandi color di foglia” di Deandriana memoria. E' realismo magico, allo stato puro, quello a cui sempre si affidato il regista sardo, senza alcun compiacimento. Per dirlo con le stesse parole della protagonista: “non c’è nulla né da vedere né da nascondere”. Semplicemente si è, ci si sta e si abitano luoghi, fra disagio e intimità. Come in un girone dantesco, fra schitarrate di rock e il caldo che squaglia i gelati, insieme al cupo brulicare di anime alla deriva. Straordinarie le esordienti Sara Podda e Maya Mulas, capaci di dare a quest’originale film il giusto peso del volo. Specie quando si tratta di desiderio ed esigenza di riscatto.

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