Regia di Ulrich Seidl vedi scheda film
Secondo capitolo sulla ricerca del paradiso, dopo l’amore arriva Paradise faith (fede)dell’austriaco U.Seidl. Se un film come questo non può che subire l’etichettatura di film scandalo in un ambito ingessato come un festival di Venezia del duemila, che in questa edizione però ha saputo anche offrire buone proposte, la cassa di risonanza ottenuta dal suo passaggio auguriamoci che non lo faccia sparire troppo presto e che magari ne favorisca una dose minima di distribuzione legale. Paradise faith è un film sull’ossessione, in questo caso sull’integralismo della fede, che si sostituisce a qualsiasi altra relazione umana, mascherando un disagio psichico incontrollato e irrisolvibile. Con uno stile di crudo realismo e di alta efficacia visiva Seidl descrive l’irrazionalità allo stato puro, attraverso rituali compulsivi destinati ad allontanare da sé ciò che la protagonista, Anna Maria, (l’ottima Maria Hofstatter) ha paura di affrontare. La donna è un tecnico di radiologia, “vede” attraverso i suoi strumenti di lavoro dentro le altre persone qualcosa che la persona stessa non può conoscere di sé e già questo la aiuta nel suo assurdo percorso di santità spirituale. Quando è a casa prega, si mortifica il corpo, cura maniacalmente l’ordine e la pulizia, nel pieno della sua solitudine si offre totalmente a cristo, manifestando un disturbo evidente della personalità. Seidl ci accompagna nelle sue peregrinazioni porta a porta, con una statua della madonna che usa come chiave di volta per entrare nella vita degli altri e razionalmente convincerli ad aderire alla sua rigida idea di fede. Verrà messa a dura prova quando ricomparirà dopo due anni di assenza, il marito di Anna Maria, Nabil, immigrato egiziano costretto su di una sedia a rotelle. Musulmano convinto, ma anche apparentemente integrato nella nuova terra, rivendica il suo bisogno d’affetto e di amore fisico in modo chiaro e diretto, che si scontra duramente con gli identici bisogni vitali ma soffocati, di Anna Maria che li nasconde sotto la sua ossessione religiosa. Il cammino di Anna Maria sarà molto più impegnativo e doloroso del tragitto in ginocchio che compie dentro la sua casa-chiesa (una delle scene più significative), e dovrà fare i conti con quell’anima che aprioristicamente ha affidato al suo sentimento religioso. Costellato di immagini forti e destinato a scatenare sterili polemiche fra cattolici e antireligiosi, Paradise faith racchiude significati molto più ampi, e gli stessi aspetti devianti e ossessivi della protagonista, li possiamo individuare intorno a noi sotto forme diverse ma ugualmente devastanti.e pericolose. Seidl punta il dito sulle conseguenze di lasciarsi dominare da pensieri intrusivi che sfuggono al proprio controllo e che convenientemente l’individuo che ne è preda ne affida la spiegazione e la natura, non al vissuto personale ma delegandone il controllo a un entità puramente spirituale e non verificabile. Soprattutto il gran finale solleva interrogativamente la domanda su cosa e di chi ha bisogno una persona per vivere e aspirare al proprio modesto e qualificato “paradiso.” Un ultima annotazione sulla figura del marito Nabil, raffigurato con determinazione e con la dolorosa veste di malato. La sua fatica di movimento, i suoi gesti stentati come le sue profferte relazionali esprimono una sensibilità vera e semplice,( aiutata dalla mdp libera che lo cattura da vicino riempiendo lo schermo) è basata sull’istintualità e sulla natura umana che le nostre evolute società hanno rimosso coprendola di sovrastrutture mentali e materiali destinate ad affievolire la capacità di amare, di guardarsi dentro gli occhi, di scoprirsi veramente di fronte all’altro, in nome di una vera libertà, spirituale e fisica. Eccolo, il paradiso.
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