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Hellevator: The Bottled Fools

Regia di Hiroki Yamaguchi vedi scheda film

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La recensione su Hellevator: The Bottled Fools

di pazuzu
8 stelle

Laggiù fumare è proibito, ed anche pericoloso. Perché sottoterra l'aria scarseggia, e perché un'esplosione avrebbe effetti vieppiù devastanti qualora avvenisse all'interno di un circuito chiuso. Ma al piano 138, occupato da una comunità ospedaliera impegnata a dar da mangiare ai poveri e ad aiutare i disagiati psichici, c'è qualcuno che non la pensa così, o che semplicemente se ne frega: è Luchino, studentessa diciassettenne fresca di riabilitazione, che si appresta a rientrare a scuola ma non prima d'aver acquistato un pacchetto di sigarette da uno spacciatore e, in barba alle regole, essersene accesa subito una.
Laggiù tutto è controllato, e gli spostamenti limitati. Perché la sorveglianza ha occhi e orecchie dappertutto, e perché l'unico mezzo di trasporto sono gli ascensori, strutturati secondo un sistema fitto che dai bassifondi risale fino in cima al primo piano, oltre il quale c'è la superficie, ovvero la fine del mondo, dove tutto è freddo scuro e spaventoso. Così la sigaretta di Luchino non passa inosservata, e la fuga precipitosa dai colpi di pistola di un agente di polizia la porta a gettarla a terra ancora accesa per poi rifugiarsi nella cabina che dovrebbe permetterle di attraversare in altezza l'edificio-megalopoli fino ad arrivare alla scuola, sita al piano 4.
Il viaggio, condotto da una donna infilata in una divisa impeccabile, che parla e si muove come un automa, ripetitiva monocorde ed imperturbabile, prevede delle soste intermedie in alcuni dei livelli più popolati (al 135 ci sono i ricercatori, al 132 i negozi alimentari e le edicole, al 128 le case e i dormitori, al 125 la zona conglomerata, al 123 l'ospedale e il cimitero) durante le quali ad entrare ed uscire è l'umanità più varia, e terminate le quali è prevista un'unica tirata fino al capolinea; ma al piano 122, proprio all'inizio dell'ultima lunga corsa, una telefonata dalle alte sfere invita l'operatrice ad effettuare una fermata supplementare al 99, quello dei carcerati, per caricarne due. Si tratta di uno stupratore seriale con una predilezione particolare per la carne fresca e di un attentatore dinamitardo dal linguaggio misterioso, scortati da una guardia giovane inesperta e pericolosamente nervosa; liberatisi in quattro e quattr'otto del suo controllo privo di autorità, proprio mentre la sigaretta abbandonata al piano di partenza genera il temuto botto causando il guasto - tra gli altri - del loro ascensore, i due prendono a seminare il terrore tra i viaggiatori rimasti: ad attendere Luchino (tormentata da strane visioni ed incubi ad occhi aperti incentrati sul ricordo del padre violento), l'operatrice (che perderà ben presto il proprio rigorosissimo contegno), e le altre tre persone salite in precedenza (un ragazzo imperturbabile indifferente a tutto se non alla musica che proviene dalle proprie cuffie, una donna ansiosa con la carrozzina del proprio bebé, ed un luminare di biologia ancorato ad un'inseparabile valigetta), sarà un'escalation di azioni e reazioni che avranno come denominatore comune la follia.

Conosciuto in occidente come Hellevator (aplologia pacchiana e fuorviante), The Bottled Fools (traduzione blanda dall'originale), o Gusher no binds me (agghiacciante inglesizzazione dal giapponese), Gusha no bindume è il terzo film del regista Hiroki Yamaguchi, e nelle tre parole del proprio titolo (letteralmente "Imbottigliamento di stupidi") propone un'immagine che è già sintesi beffarda e metafora perversa dei suoi 97 minuti di claustrofobia incertezza e tensione.
Dotato di uno stile di ripresa aggressivo ma sinuoso e misurato, il filmaker nipponico classe 1978 si dimostra tutt'altro che sprovveduto anche in fase di scrittura, dando vita - quale unico sceneggiatore - ad un meccanismo solo in apparenza confuso ma a conti fatti ben definito e sapientemente oliato, e permettendosi il lusso, all'interno di una struttura narrativa a forte rischio staticità, di disseminare false piste, spiazzare e sorprendere, dando il giusto rilievo ai dialoghi ma senza temere l'azzardo degli effetti visivi, sfruttando i primi minuti per introdurre lo spettatore ad una distopia dal deciso sapore orwelliano, e quasi tutti gli altri per cingerlo d'assedio in una cabina ascensore di una manciata di metri quadri, alle prese con le dinamiche relazionali che si innestano tra otto personaggi borderline caratterizzati con cura.
Girando in digitale con un budget ridotto all'osso, con scenografie assemblate riciclando materiali di scarto e con troupe e attori volontari e non retribuiti, Yamaguchi supplisce con la fantasia e realizza un piccolo miracolo di inventiva, sfrutta al meglio un avvolgente tappeto sonoro che mescola con incosciente perizia drum & bass e neoclassica passando per il pop elettronico, e dà un senso compiuto alle scelte cromatiche radicali del direttore della fotografia Hikaru Yasuda, che affoga gli interni dell'ascensore in tonalità gialle e verdi ad altissimo tasso di acidità pronte a stridere ogni qual volta tra esse si insinui il rosso vivo del sangue, lasciando invece al blu profondo gli sfondi dei brevi intermezzi ambientati al commissariato, dove un poliziotto cerca di ricostruire l'accaduto interrogando i sopravvissuti.
Affascinante e singolare, Gusha no bindume è un film di genere indefinibile, un potenziale manga live action, un dramma psicologico con venature horror, un thriller futuribile splendidamente mascherato da sci-fi; e Hiroki Yamaguchi, il suo scatenato autore, un giovane regista da seguire con attenzione.

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