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Perché si uccide un magistrato

Regia di Damiano Damiani vedi scheda film

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La recensione su Perché si uccide un magistrato

di lamettrie
9 stelle

Un gran bel giallo di mafia: avvincente, mai noioso, intricatissimo, tanto da tenere assieme in incastro i vari piani del potere siciliano. La lettura giocata su vari piani che si intersecano è un pregio della sceneggiatura: realistica, pur essendo complicata, è leggibile e logica. In più la maestria nel giallo permette comunque di non lasciare nulla come facilmente decifrabile.

Soprattutto, il pregio del film sta nella denuncia. Lascia chiaramente intuire chi comanda in Sicilia: i mafiosi, coloro che dunque hanno concentrata quasi tutta la ricchezza della loro terra. Questi devono stare nell’ombra, ma gestiscono tutto tramite imprenditori e politici fidati. Dove “affidabilità” vuol qui dire “corruzione” e “crimine”.

Splendida è la denuncia di quell’associazione a delinquere che era “il partito”: una condanna, ineccepibile, a carico della Democrazia cristiana. Forse propria questa corretta denuncia pesa sulla damnatio memoriae di uno dei nostri migliori registi (per quanto mostrato sino agli anni ’80).

Memorabile è la scena della morte del mafioso dializzato: il medico è professionale nel somministrarla, oltre che corrotto dal denaro e privo di anche un barlume di coscienza.

Interessante è la sovrapposizione con la vicenda sentimentale: alla fine è proprio questa che salva i mafiosi e i loro politici dalla condanna, come se Damiani volesse fare un po’ di satira sullo scandalismo, e sulla cultura del sospetto, che lui stesso avrebbe incoraggiato, secondo la critica. Questa sottolineatura, lungi dall’essere una contraddizione con il suo stile di denuncia spinta, indica una presa di distanza dal complottismo, e dà ulteriore pregio al suo cinema, basato su una denuncia seria, “documentale”, e non campata per aria. Il suo cinema resta forse il più vibrante nella conoscenza del fenomeno mafioso, cui non fa affatto sconti: un fenomeno così tristemente importante e vincente, a voler capire la storia dell’Italia unita. Il maestro friulano ci dà prova di cose che al grande pubblico sembrano già note (non tanto dall’averle debellate, neppure in parte, comunque!). Ma nel ’74 non era affatto così; e se sono note, è anche perché le ha divulgate in modo eccezionale ne “La piovra”, suo prodotto televisivo di qualità straordinariamente più alta rispetto alle serie di Tv di allora e poi, e di oggi. Questo filone era già stato valorizzato in modo notevole ne “Il giorno della civetta del ’68, e secondo me in modo inarrivabile nel sottovalutatissimo “Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica” del ’71. E non sono solo questi i suoi capolavori.

Damiani è qui autore anche di soggetto e sceneggiatura: questa sua creatura piena ha anche il merito di fare del metacinema: il protagonista è proprio un regista come lui, che cerca di raccontare le verità più scomode, a proprio rischio e pericolo.

Degno del miglior filone poliziesco, quello all’americana che raramente a livello internazionale ha trovato passi all’altezza di Damiani (penso soprattutto a “Io ho paura”, e “Goodbye & Amen”, senza dimenticare “L'istruttoria è chiusa: dimentichi”), questa pellicola da 8 merita per me un 9, proprio per la denuncia verosimile della realtà profondamente corrotta della ricchezza nel Sud Italia. Unico neo: talvolta i dialoghi fra il protagonista Franco Nero e la fresca vedova scadono un po’ nel melodrammatico.

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