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Mekong Hotel

Regia di Apichatpong Weerasethakul vedi scheda film

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La recensione su Mekong Hotel

di spopola
8 stelle

Da vedere soltanto se si è riusciti ad apprezzare il valore (anche della ricerca formale) delle precedenti pellicole di Apichatpong Weerasethakul, o se si ha interesse ad esplorare inedite strade percettive persino molto divergenti rispetto a ciò che normalmente passa sullo schermo, altrimenti consiglio di astenersi perché anche in questo caso ci troviamo di fronte a un’opera di difficilissima fruizione che non può e non deve essere valutata con il metro di giudizio che si riserva a un semplice film inteso come tale, poiché il lavoro che il regista fa sulla pellicola e intorno ad essa, è davvero molto più trasversale, di quelli che “travalicano” i campi e le definizioni certe. Si potrebbe infatti dire (ma il discorso valeva anche per il fortemente contestato Lo zio Boonmee  che si ricorda delle vite precedenti dai più invero poco gradito qui in Italia e forse anche meno compreso proprio per la radicalità delle sue scelte) che ci troviamo di fronte a un’opera multimediale molto complessa nelle sue valenze anche strutturali che è un ibrido di forte presa immaginifica che appunto, come prova a sintetizzare Simone Emiliani su Cineforum,  non è soltanto un film, ma anche qualcos’altro, forse più videoarte, ma anche questo termine, questa classificazione, sono molto riduttivi, nel senso che non riescono proprio a dare un’idea precisa e definitiva di ciò che ci troviamo di fronte.

Il prodotto è dunque indubbiamente “anomalo” soprattutto rispetto ai canoni correnti, dai quali si diversifica per più di una ragione (anche di approccio al mezzo) ma rappresenta a mio avviso una personale e inedita “visione” delle cose, magari di difficile inquadramento in uno schema come si è visto, ma che probabilmente racchiude proprio in questo il fascino e l’interesse che stimola se si ha la voglia e il coraggio di provare a penetrarlo, perché in qualunque modo si cerchi di interpretarlo o si tenti di esprimere un giudizio anche di merito, ci rendiamo alla fine conto che siamo stati abbastanza riduttivi, ne stiamo considerando solo un aspetto e non per cattiva volontà, ma proprio perché dobbiamo ammettere a noi stessi (anche con un certo disagio) che forse non abbiamo una sufficiente preparazione per vagliarne tutte le implicazioni teoriche, culturali e antropologiche che si porta appresso e che cerca di “condensare” a suo modo in immagini, sulle quali comunque lavora di cesello al fine di trasmettere (e spesso ci riesce) forti emozioni al di là della “conoscenza” e della “comprensione”. Posso allora concludere questa introduzione, per ribadire che le classificazioni  per il cinema di Apichatpong Weerasethakul (e ormai ne abbiamo acquista la certezza assoluta)  sono davvero “indefinibili” ed è allora molto meglio, almeno per noi occidentali, proprio non provarci a farlo, visto che sarebbe uno sforzo inutile perché ci mancano molte conoscenze (gli usi ed i costumi, oltre che le leggende, i riti ed il passato di un paese a noi così distante) che ci consentano di inscatolarlo come vorremmo, in un qualcosa di “certo” e di rassicurante (e non è sicuramente un male lasciarsi trasportare una volta tanto solo dal pensiero e dalla fantasia).

Per tornare a questa sua ultima fatica e provare a rendere più chiaro il concetto, sarebbe sufficiente infatti soffermarci su una scena, o per meglio dire, sull’immagine  lunghissima e quasi insostenibile allo sguardo, del fiume, immobile e immutabile nel suo corso che “attraversa” il film: lì la “trasformazione” (se così la vogliamo definire) è a vista, e si avverte non nel movimento che non c’è, ma proprio nella fissità più o meno totale della cinepresa, che sembra identificarsi quasi nella fissità dell’occhio di chi osserva (quello dello spettatore) perché è proprio da questa staticità visiva che si avverte a un certo punto come uno scarto, quasi un subbuglio, che ci porta a considerare che qualcosa forse si è mosso, o che si è percepito come movimento inconscio di una impercettibilissima “variazione visiva” che probabilmente non c’è nemmeno stata:  ci rendiamo conto insomma che stiamo ancora vedendo la stessa, inamovibile immagine, ma che è proprio in tale fissità che molto si è modificato invece nel nostro immaginario nell’intervallo di tempo trascorso  da quando si è iniziato a guardare l’immagine a quando si finisce (ancora Simone Emiliani), esattamente come se quasi magicamente, la nostra retina avesse trattenuto e trasferito nel cervello qualcosa delle immagini che avevamo percepito in precedenza, ed è un qualcosa di così inquietante che resta e quasi si travasa persino in quelle che vedremo dopo, proprio come se subissimo un sorprendente choc che potremmo definire simile a un cortocircuito del pensiero, un processo straordinario che va ben oltre la  più o meno mutevole durata  di una inquadratura fissa, attraverso il quale il regista prova ad alterare progressivamente (e a mio avviso ci riesce benissimo)  ogni altro soggettivo livello percettivo dello spettatore con la suggestione dello sguardo.

 

Il progetto di questa ultima fatica (che dura solo un’ora e un minuto) può apparire  allora più contenuto rispetto alle precedenti  opere del regista che sono approdate anche sui nostri schermi, ma non certo meno ambizioso e problematico, visto che riserva per altro lo stesso trattamento preferenziale agli elementi della natura (l’acqua del fiume in questo caso, esattamente come era centrale la foresta in Tropical Malady e gli intricati grovigli della giungla ne Lo zio Boonmee), riproposti come realtà “fisicamente reali e concrete”, ma riprodotti e rappresentati in maniera quasi ipnotica.

Un’altra sfida dunque e per più di una ragione, che tenta di fornirci un qualcosa che è soprattutto una percezione “sensoriale” (perché è poi questo l’aspetto che viene sempre privilegiato dal cinema di Apichatpong Weerasethakul), che probabilmente non raggiunge la coinvolgente intensità della sua precedente opera, ma sufficiente comunque al regista per riproporci ancora e sempre, tutte le matrici (anche di un genere come l’horror qui perfettamente sublimato) di un cinema davvero molto speciale come quello thailandese che vorremmo imparare a conoscere meglio e più a fondo, e che probabilmente trova in lui la sua massima espressine artistica proprio in quel provare a mostrarci (mai in maniera del tutto scoperta) le figure spettrali che si agitano nella mente (e nelle tradizioni) di una terra a noi lontana e sconosciuta, per trasformarle in entità quasi reali e farle diventare presenze inquiete che convivono con gli umani (e forse ne condizionano l’esistenza) che sono così fortemente e “consistentemente carnali” pur nella la loro quasi impalpabile presenza, da risultare eterne ed immutabili nel tempo (nel senso che si percepiscono come preesistenti nella storia e nelle leggende di quel paese, figure che al momento sembrano persino impossibili da debellare o semplicemente da “sospendere” e che per questo resteranno ancora a lungo a condizionare vite ed esistenze, immutabili proprio per il  loro essere una emanazione tramandata di memorie condivise).

Difficile allora persino raccontare (per quel che sembra voler essere) la storia effettiva di una pellicola dove Apichatpong Weerasethakul e la sua truppe tornano a ripercorrere i sentieri – seguendone le tracce – di una storia  (Ecstasy Garden) che lo stesso cineasta aveva concepito e scritto per un altro film, e dove forse e già dal titolo si avverte – proprio come avviene spesso nella sua opera – la predisposizione a far vedere altro oltre ciò che si rappresenta, almeno a chi è capace di sondare e scoprire nel profondo quello che le immagini sembrano voler nascondere e camuffare in superficie per oltrepassare così – o per meglio dire ancora “travalicare” -  non solo il senso di quel film, ma anche degli spazi scenici,  precisi e documentati – e come tali reali - in cui l’opera è ambientata. E’ ancora Emiliani a illuminarci al riguardo quando scrive che in Apichatpong Weerasethakul il cinema – o meglio la sua macchina da presa - rivela soltanto l’illusione di una realtà che è evanescente e come tale, sfuggente ai più.

Tutto è allora anche qui molto al di là di ciò che ci sta passando davanti sullo schermo, ben oltre quell’albergo affacciato sul largo e lento fiume Mekong in Thailandia al confine col Laos, ricordato nei titoli di coda come "Sam Oar Guest House.": cos’è dunque veramente il Mekong Hotel? una realistica presenza come l’ospedale di Syndromes at a Century o è una casa abitata da fantasmi , o addirittura e solo una “illusione sensoriale”? Domande che rimangono senza risposte, partendo però dal concetto che anche qui la reincarnazione è un tema molto importante e centrale per il regista, tanto che gli spiriti del passato spaventosamente soprannaturali nella loro essenza fantasmatica, diventano di nuovo una materia realisticamente corporea, oltre che residui immaginariamente irreali ma ancora percepiti nel presente come verità inoppugnabili dalla memoria individuale della gente di quel paese, due differenti dimensioni che si intrecciano fra loro inestricabilmente con una rete infinita di rimandi e di sollecitazioni tutte percettive.

 

Pur essendo rimasto di nuovo affascinato dalla visione avvolgente di quest’opera, devo però ammettere che io al momento so dare pochissime conclusioni “certe” al riguardo (anzi quasi nessuna) al di là delle emozioni provate, e ciò è dovuto in parte alla difficoltà di una “visione troppo approssimata” con la quale mi sono approcciato alla pellicola presentata in lingua originale (e quindi totalmente sconosciuta e inaccessibile) e con una traduzione in inglese (sottotitoli) che mi è sembrata un tantino “semplificata” (ma qui va aggiunta purtroppo la mia scarsa conoscenza anche di questa lingua).

Spero allora di avere l’opportunità di rivederla “al meglio” e in condizioni meno disagiate che mi consentano di dipanare fino in fondo la matassa intricata della storia, perché qui davvero siamo calati dentro un universo quasi circolare dove nulla comincia e nulla arriva ad una conclusione  davvero definitiva che contiene al suo interno tantissimi elementi anche simbolici da  interpretare (oltre l’acqua magmatica di quel fiume che come ho già accennato sopra si snoda tortuoso fra la Thailandia e il Laos, qui abbiamo a che fare con una madre-vampiro, la sua figliola, e una giovane coppia di amanti, ma non ci è dato di sapere - o di comprendere davvero - se anche queste figure sono fantasmi ectoplasmatici di persone morte molti secoli prima, che popolano però ancora attivamente quel luogo e lo “contaminano”, se li dobbiamo considerare insomma come inquietanti proiezioni risorte all’improvviso dalle tragedie del passato, o se al contrario sono soltanto fittizie  presenze materializzate da una macchina da presa tanto creativa che, nell’estensione della durata quasi “spasmodica” di inquadrature che sembrano davvero “interminabili”, alla fine ce le fa avvertire come presenze che in realtà non ci sono, né sono state mostrate per davvero (probabilmente solo “suggerite”), ma che lo spettatore crede di aver visto per l’illusione ottica di una suggestione che vive e prende forma attraverso le impalpabili sembianze disegnate sul telone bianco finchè rimane attiva la luce del proiettore che ce le rimanda come angoscianti presenze del reale ma che si dissolvono e si frantumano quando si spenge il riflettore.

Gli elementi ricorrenti del cinema di questo anomalo artista (nascita/morte/rinascita; acqua/sangue/rigogliosa presenza di una natura incontaminata e minacciosa) sono dunque tutti qui, di nuovo  presenti e “fondamentali”,  perfettamente scanditi, quasi distillati alla vista di “chi vuol vedere” (o riesce a farlo) e si lascia affascinare dalle suggestioni, perché non è solo lo sguardo questa volta ad essere inebriato: in Mekong Hotel un ruolo preponderante ce l’ha anche il suono invasivamente persistente di una chitarra che rende altrettanto ripetitivamente interminabili i suoi suggestivi accordi di accompagnamento musicale, che partono da una terrazza (all’inizio del film) e si stemperano poi fino quasi a “smarrirsi” dentro a una atmosfera decadente dove ciò che è filmato (e mi scuso se mi ripeto un poco) serve a fissare le inquietanti zone d’ombra piene di allarmanti, ancestrali segreti, un qualcosa insomma che da un momento all’altro la mano crudele di un sprovveduta presunta civiltà in espansione e distruttivamente irreversibile che lascia ampio spazio alle tragedie che si pretende di definire naturali (che è poi l’opera imbecille del genere umano a renderle tanto terribili quanto ineluttabili) può decidere di far scomparire definitivamente da un momento all’altro in un territorio troppo fragile e vulnerabile come quello (il film è stato girato proprio nel periodo in cui la Thailandia  è stata martoriata una devastante inondazione).

Ma questo è ovviamente solo un lato della medaglia (che riguarda l’aspetto quasi antropologico di conoscenza divulgativa che tutti possono e devono riconoscere ai lavori di questo immaginifico creatore di “eventi artistici”)  perché il vero valore aggiunto, il piccolo miracolo che si produce, è che poi alla fine anche lo spettatore meno avveduto avverte (e spero apprezzi) la spaccatura evidente che si crea durante la visione fra quello che probabilmente era il “più semplicistico” progetto di partenza (la storia nuda e cruda) e il risultato finale che il film riesce invece a veicolare con la sua capacità di “reinventarsi” e rinascere  in differenti forme proprio nel corso della divulgazione pratica delle immagini, così da diventare soprattutto un magma cangiantemente sfuggente e in costante evoluzione, che si divide e si moltiplica a piacimento, assume prospettive e valenze differenti a seconda del punto di vista di chi osserva fino quasi a sfaldarsi completamente nel finale, un qualcosa insomma che diventa davvero e in tutti i sensi un cinema che non va solo atteso, ma vissuto fino in fondo con tutti i sensi insieme, mettendo cioè in movimento l’intero nostro “immaginario percettivo”, quasi che si trattasse di un oggetto che cerchiamo di “trattenere” e di fare nostro, ma che si sta demolendo nel suo stesso mostrarsi perchè anche la stessa pellicola è matericamente soggetta a un inevitabile logorio, e quindi da apprezzare per la sua provvisorietà simile a quella dei fantasmi (forse) solo evocati (Simone Emiliani spero che non me ne vorrà se ricorro ancora a lui per tentare di rendere più esplicito il mio discorso). Non sempre si riesce a compierlo questo processo “identificativo” e ne devo dare atto: è tutt’altro che facile infatti lasciarsi “tramortire” dalle sensazioni forti che si celano dietro quelle conturbanti sequenze fissate im una inamovibilità  persino un po’ deconcentrante , ma all’occorrenza ci si può provare a farlo e se si riesce a raggiungere davvero quel grado di astrazione che ci fa volare tanto in alto, persino oltre il senso concreto delle cose, vi assicuro che se ne esce fuori sicuramente disturbati e scossi, ma appagati, e con qualcosa in più proprio per quel che riguarda il nostro personale bagaglio empatico delle emozioni.

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