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Papà Gambalunga

Regia di Jean Negulesco vedi scheda film

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La recensione su Papà Gambalunga

di leporello
7 stelle

   Non ricordavo di aver visto questo “Papà Gambalunga”, ma quando l’altra sera ho sentito annunciare a fine TGXXXX che sarebbe andato in onda di lì a pochi minuti, solo al sentire il suo titolo così irresistibile qualcosa mi ha perentoriamente fatto buttare il telecomando, inchiodandomi senza scampo alla poltrona. Sulla poltrona, a dire il vero, mi ci sono anche addormentato, perdendomi la parte centrale del film, ma quella è solo colpa mia e di come gestisco male le mie cene estive, casomai un po’ anche del caldo e dell’afa insopportabili di questi giorni che rendono ragionevole più di ogni altra la semplicissima, risolutiva azione del dormire.


   Prima di appisolarmi, però, mi sono divertito da morire: la faccia di Fred Astaire mi ha sempre fatto tanta simpatia, e come interpreta poi questo miliardario strambo e di buon cuore appassionato di musica e che mette il jazz prima delle telefonate urgenti dei Dipartimenti di Stato, con quella pipa in bocca infilata ai limiti delle leggi della fisica (gli stessi limiti oltrepassati dalla sua proverbiale maestria di ballerino), l’eccentricità del personaggio unita all’istrionismo dell’attore mi avevano davvero conquistato. E che dire di Leslie Caron... immersa, prelevata da un mondo a quadretti bianco/neri di uno sperduto orfanotrofio, la scena del suo entusiasmo di diciottenne incontaminata quando riceve i due bauli di vestiti nel nuovo college americano e si mette a saltare come una scimmietta; o prima ancora: di come cantava, disegnando in inglese, le lezioni alla lavagna ai suoi piccoli amici d’istituto prima di metterli a dormire... che dire?!?


   Insomma, prima di appisolarmi, ricordo solo di:

1) essermi divertito molto;

2) essere stato attraversato da un brivido di sospettosi preallarmi quando le attenzioni che il non più giovanissimo miliardario aveva per l’orfanella ancora in odor di latte sembravano voler assumere una veste sentimentale.

In quello spazio sospeso della coscienza che viviamo tutti tra la veglia ed il sonno, avevo però  felicemente fatto a tempo ad intuire che il miliardario voleva semplicemente adottare la ragazza, contribuire eventualmente (anzi: certamente!) alla sua futura fortuna, e non conquistarla o sedurla; forse per questo motivo il mio sonnecchiare è stato dunque  lieve, sereno, sollevandomi verso l’alto nell’atmosfera gravida di millibar dalle musiche irresistibili degli anni ’50 e dei balletti antigravitazionali che, non potendo vedere avendo gli occhi chiusi, la mia mente comunque proiettava in uno dei suoi reconditi anfratti, con le lunghe gambe di Papà Fred che sicuramente piroettavano oltre e sopra il tasso di umidità relativa in essere, a dispetto delle teorie di Newton, Keplero, Franklin e Bernacca (il colonnello, chi se lo ricorda?).
Se non che, al mio risveglio. Oddio... che succede?

 

   Le mi cispose ciglia sudaticce si separano leggermente per alcuni istanti con l’ineludibile  fatica del momento, in tempo per intercettare il dialogo in cui lei chiama lui “zio”.

Lui e lei non si erano mai incontrati prima del beatificante stato di trance anticiclonica caduto.  Lui però, intanto che parla con lei, tiene le mani in tasca e questa è, per fortuna, cosa buona e giusta; al massimo, protende un po’ troppo verso di lei il puntuto mento che, nel caso del puntutissimo mento di Fred Astaire, è oggettivamente una situazione difficile da gestire. Ma già l’epiteto di “zio” mette per un attimo in semi-cosciente agitazione la cistifellea della mia coscienza, procurandomi la necessità di elaborare il ragionamento per il quale tante volte il termine “zio” non è stato il viatico migliore.

   Se non che, le ore passano. Nel frattempo ha rinfrescato. Ricordo solo che, intanto che finivo per cadere definitivamente tra le braccia di Orfeo, dallo schermo della TV usciva una attimo meraviglioso in cui “lui” guida “lei” in una danza morbidissima nella quale “lui” fa appoggiare il capo di “lei” sulla sua spalla prima di raggiungere in volo insieme, danzando, forse il Sole, caldissimo anche di notte, forse meno. E, manco a dirlo, decidono di sposarsi.


   Però il mio fegato, una volta confortato dall’abbassamento della temperatura atmosferica e ritemprato da una finalmente sana, ben fatta prima colazione, il giorno dopo ha voluto verificare.
Il film è del 1955. A quella data, il signor Astaire Fred, classe 1899, aveva 56 anni. Li portava male? Direi di sì, ma bisognerebbe essere nei suoi panni per poter dire perchè. La signora Caron Leslie, invece, classe 1931, ne aveva ventuno, e non diciotto come narra la sceneggiatura. Li portava bene? Ma va là! cosa vuoi portare quando hai intorno ai vent’anni?!?  La sceneggiatura del film ingenuamente rimarca e divarica oltre misura le età dei due protagonisti, in cui lui magari lui fosse solo lo zio, che potrebbe sembrare anche il nonno! Invece, nella realtà, gli anni di differenza sono solo (si fa per dire) una trentina, quanto basta per fugare i sospetti di protopedofilia che si erano affacciati nella mia mente (e, al quel che leggo spulciando tra gli altri commenti, anche nella mente di qualcun altro.

 

   Un piccolo gioiellino.

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