Espandi menu
cerca
Django Unchained

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

Recensioni

L'autore

M Valdemar

M Valdemar

Iscritto dal 6 febbraio 2010 Vai al suo profilo
  • Seguaci 250
  • Post 28
  • Recensioni 576
  • Playlist 36
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Django Unchained

di M Valdemar
10 stelle

Uscito in sala da pochissimi giorni ed è già stata riversata una quantità sterminata, infinita di parole. Per chi altro accade? Inutile scervellarsi: a nessun altro capita. C’è chi lo adora, chi lo detesta, chi ne scompone e analizza ogni singolo fotogramma, chi lo scansa eppure non può fare a meno di dire la sua - tutti a vario e legittimo titolo asserviti al verbo del geniaccio Tarantino.
Giacché è stata appunto scritta qualsiasi cosa, qui ed altrove, e sviscerata ogni tipo di riflessione riguardo Django Unchained e più in generale la poetica del suo seguitissimo creatore (in fondo le sia le critiche a favore che quelle contro sono praticamente sempre le medesime: siamo pedine del suo “gioco” perverso), mi limiterò a qualche breve semplice considerazione personale, scaturita dalla visione/esperienza della pellicola.

  Poteva durare un’altra decina di ore ed io sarei rimasto lì, immobilizzato, diventando organicamente un tutt’uno con la poltroncina, con gli occhi fissi sul grande schermo a inebriarmi di Cinema.

  Basta una manciata di secondi e si è immediatamente immersi nel - e (s)travolti dal - film. Stato estatico che si conserva inalterato e felice fino alla fine, tenuto in trance dalla complessa, multiforme, curatissima mole di sollecitazioni multisensoriali.

  QT (bastano le iniziali) cita, omaggia, ruba, rifà, e bla bla bla banalizzando. Come se altri non lo facessero. Ma lui lo rende esplicito: è la sua dichiarazione di appartenenza e di amore alla settima arte (in ogni sua gradazione, classe, deviazione), per quel mondo che lo ha allevato e in cui vi sparge tutto sé stesso, sino al martirio (metaforico, s’intende - si veda la fine “esplosiva” che riserva per sé). E poi è un burlone, suvvia, gioca e si diverte a guardarci scannare, in particolare quelli che passano il tempo a contarne e riferirne come uno scolaretto spione alla maestra le (coltissime e mai casuali) citazioni (o come diavolo le si voglia definirle).

  Dunque, stai lì seduto che godi, ti entusiasmi, ti incavoli (perché il tema principale non è esattamente una quisquilia) eccetera eccetera, e l’impressione - fortissima, suggestiva, irripetibile - è che QT ti stia lì accanto, a provare le tue stesse sensazioni. Egli è contemporaneamente demiurgo, intrattenitore (d’altissimo livello) e spettatore. “Gira quello che gli piacerebbe vedere”: è una frase fatta e retorica quanto si vuole, ma caspita, è quello che si percepisce in maniera netta, potente.

  No, Mr. Spike Lee, la schiavitù non è uno scherzo né tanto meno un fottuto spaghetti western, e il termine “negro” non è da usare con leggerezza per meri e puerili intenti comici. Le accuse rivolte a Django Unchained senza nemmeno averlo visto sono pretestuose, celano altri fini (l’avversione per il regista di Pulp Fiction è nota) e suonano come una noiosa nenia/predica molesta. Che sia invidioso?

  Il “genere”, i classici, la serie A, la serie B e via via scendendo in basso (o verso la pancia, l’artigianato, la passione). Il cinema di QT è “totale”: le critiche che sottolineano di volta in volta lo scarso se non nullo rispetto al tale genere o alla talaltra categoria (anche nelle innumerevoli varianti, a cominciare da quelle aventi il prefisso “sotto”) e a quelle che sono le (presunte, intoccabili, divine) regole che i fan/fondamentalisti pretendono (del tipo: il western si “deve” fare in un determinato modo, devi dire questo e quest’altro ma non quell’altra cosa, non puoi infilarci un rap, non puoi essere troppo violento … sostanzialmente dei comandamenti) non hanno senso né ragione d’essere.
Lo stesso vale per chi esige immedesimazione nei personaggi (ma dove sta scritto?) e nelle loro caratteristiche, sviluppo canonico, sequenze non troppo forti.
A quel punto, i puristi e le anime pie si astengano e rivolgano altrove le loro attenzioni. Ma NON possono, vero?

  Django Unchained è puro Tarantino al 100%. Lo stile è il suo, inconfondibile e imitatissimo (e, parimenti, venerato oppure odiato). Lui plasma la materia filmica a modo suo, mischiando sacro e profano, riflessioni “alte” (le questioni, fortemente politiche, della schiavitù e del razzismo - sempre attuale - sono trattate con vigore, intensità e senza risparmiare niente e nessuno) e colpi bassi (gli scatti di violenza, il copioso versamento ematico). Il risultato è una miscela esplosiva le cui parti sono meravigliosamente in armonia tra loro e con ciò che restituiscono sullo schermo.
Momenti di pura lurida poesia (il sangue che tinge di rosso i candidi fiori di cotone), di truci azioni (compiute da truci uomini in epoche truci), di dialoghi fulminanti e scene ad alto tasso di umorismo e satira (quella degli stupidi razzisti bianchi con i loro sacchetti bianchi in testa è esilarante oltre ogni dire; la battuta finale, dopo i titoli di coda “chi era quel negro?” è fantastica), di viscerale passione per una messa in scena spettacolare e gratificante (per lo spettatore, quindi anche per QT medesimo), di accompagnamenti sonori magnifici (anche quando i pezzi, presi singolarmente, non lo sono affatto).
Una formula dagli equilibri pressoché perfetti seppure “contaminati“, in cui trova giustamente posto una non celata dose di autocompiacimento (e chi non lo farebbe?).

  Poche storie, più che Django - novello Sigfrido liberato dalle catene della schiavitù e scosso da poderosi fremiti di vendetta e di desiderio per ritrovare l’amata moglie - il protagonista assoluto è il dr. King Schultz (almeno finché è presente). Lo si vede chiaramente: in quel personaggio scritto e tratteggiato meravigliosamente c’è tutto QT, il suo gusto (buono o cattivo sempre a seconda delle posizioni), le sue manie, voglie, peculiarità e qualità di autore. Altrettanto evidente è che il dr. Schultz sia stato concepito appositamente per Christoph Waltz. Che sentitamente ringrazia e dà vita a una performance indimenticabile, straordinaria: l’Oscar sarebbe un premiucolo riduttivo. Dategli un qualche Nobel almeno …
Quanto detto non toglie comunque i meriti agli altri membri del Cast. Jamie Foxx è bravissimo e convincente (dubito che lo sarebbe stato altrettanto il più divo Will Smith, la prima scelta). Di Caprio, attore da sempre sottovalutato, è un cattivo perfetto, con improvvisi scatti d’ira e un’aria viscida, bastarda e grottesca (i siparietti con la sorella; le sue teorie “scientifiche” sulle differenze tra teschi di neri e quelli di bianchi). Samuel L. Jackson si “sacrifica” in un ruolo non propriamente positivo (per usare un eufemismo) e lo rende benissimo e con costanza. Broomhilda Von Shaft, la moglie di Django che sa parlare tedesco, vilmente frustata dai padroni bianchi, è interpretata con trasporto ed entusiasmo dalla splendida Kerry Washington (adorabile quando si tappa le orecchie prima dell’esplosione della tenuta di Candieland e poi a fatto concluso applaude).
Come d’abitudine, in parti di secondo piano e in brevissime apparizioni sfilano volti e corpi di attori recuperati un po’ ovunque nell’immenso e variopinto immaginario cine-televisivo del Nostro. Tra i più caratterizzati (nonché meno citati) una segnalazione va a Walton Goggins (il laido Billy Crash), noto come Shane Vendrell nella serie The Shield.

  Concludendo, qualora non si fosse capito, Django Unchained è una visione imprescindibile, un distillato saturo di (im)puro, “classico” (nel senso più tarantiniano ed evoluto/mutato del termine), illuminato Cinema.
Che crea dipendenza.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati