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The Sessions - Gli incontri

Regia di Ben Lewin vedi scheda film

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La recensione su The Sessions - Gli incontri

di LorCio
8 stelle

Vivere in un polmone d’acciaio è l’unica possibilità di esistenza per Mark, un giovane poeta e giornalista di Boston, che trascorre il tempo scrivendo per vari giornali e confidandosi con un prete poco ortodosso. L’esigenza di conoscere territori sessuali inesplorati per trentotto anni lo mette in contatto con Cheryl, una specie di terapista che lavora come surrogata sessuale. I loro appuntamenti non possono essere più di sei, ma terminano anzitempo, senza traumi. O quasi.

 

È questa, in sintesi, la storia di The Sessions, tratto da fatti realmente accaduti alla fine degli anni ottanta. Una storia piccola, quasi minimalista, appartenente ad un quotidiano inconsueto che riguarda una grossa fetta di popolazione spesso ignorata dal cinema. È certamente difficile portare sullo schermo un disabile evitando pietismi o ruffianerie e soprattutto era complicato trasportare in un racconto per immagini in movimento un personaggio fondamentalmente statico (Mark muove soltanto parte della testa). La prova è superata per una ragione molto semplice: è un film che ha un tocco particolare. Il tocco è qualcosa di diverso rispetto allo stile, è un modo di intendere la messinscena che riesce ad essere personale ed universale al contempo, è una scelta ponderata e allo stesso tempo una fatalità naturale.

 

Il regista è un ultrasessantenne (e non è da sottovalutare anche il fatto che abbia avuto un grande successo al Sundance, festival tipicamente giovanile) affetto da poliomelite come il protagonista: la sua regia placida e compatta gli permette di costruire un film che sa fare i conti con il fantasma della morte (Mark non può stare senza il polmone per più di tre o quattro ore) grazie all’arma dell’umorismo (“io credo in un dio con un senso dell’umorismo”), e proprio per merito della mai stucchevole vivacità intellettuale ed emotiva del protagonista che un potenziale dramma diventa qua e là una delicatissima commedia con venature da romanzo di formazione sessuale (da quel punto di vista Mark è fermo ad un età preadolescenziale e si capisce sia da come fraintende i sentimenti e quanto dia importanza al sesso).

 

La sua carta vincente è la contaminazione del cinema indipendente contemporaneo con le evocazione di certi film americani degli anni settanta (penso ad Hal Ashby, che avrei visto bene come regista ideale di un Peter Sellers disabile, ma qui sto evidentemente sognando), riuscendo a trovare un buon equilibrio narrativo. Forse potrebbe essere accusato qua e là di buonismo (ma è inevitabile), probabilmente ha alcune parti difettose (il ricordo dell’infanzia, il ritorno dell’assistente di cui Mark si innamora), ma non si possono negare l’estremo garbo, l’assenza di enfasi e di retorica, la consapevole partecipazione e la ricchezza sentimentale di un film piccolo e prezioso.

 

Che ha al suo attivo un eccellente terzetto di interpreti: un immenso John Hawkes (scandalosamente dimenticato nella cinquina degli Oscar) che comunica con solo sguardo un mondo sconfinato, una spericolata Helen Hunt alle prese con un ruolo a metà tra l’oggetto del desiderio e la demiurga del desiderio (meritatissima nomination all’Oscar) e un grande William H. Macy come prete dal fluente capello selvaggio. Qualche lacrima nel finale ci sta tutta.

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