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Bobby Fischer - Il re degli scacchi

Regia di Liz Garbus vedi scheda film

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La recensione su Bobby Fischer - Il re degli scacchi

di barabbovich
8 stelle

Nel 1972, a soli 29 anni, Bobby Fischer era forse l'uomo più famoso al mondo, colui che per 8 anni consecutivi aveva vinto il titolo di campione americano di scacchi e che adesso si apprestava a gareggiare con Boris Spassky, l'ultimo di una lunga serie di campioni mondiali russi grazie ai quali l'Unione Sovietica intendeva manifestare la propria superiorità intellettuale rispetto al resto del pianeta. Erano gli anni della Guerra Fredda e quelle 24 partite per il campionato mondiale di scacchi furono anche una metafora dell'antagonismo tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Liz Garbus ci racconta la parabola umana di quel ragazzo cresciuto troppo in fretta, che scoprì il vero padre soltanto a 9 anni e crebbe con una madre che si preoccupava fin troppo dei diritti civili e pensava pochissimo alla famiglia, campionissimo già a 15 anni ma anche pieno di stranezze, antipatico, misantropo, bizzarro. Le sue provocazioni fecero del Bobby Fischer l'ebreo un feroce antisionista e del Bobby Fisher l'americano un convinto antinazionalista, capace di rilasciare dichiarazioni scioccanti all'indomani del'attacco alle Torri Gemelle, colui che, per andare a giocare in Jugoslavia una triste rivincita vent'anni dopo con Spassky (sembrò un match tra pugili suonati), violò l'embargo ONU perdendo così la cittadinanza americana e terminando la sua vita folle a soli 64 anni, in Islanda, il Paese che aveva fatto da palcoscenico al suo titolo mondiale e che si propose per dargli la nazionalità dopo l'ostracismo USA.
L'accattivante documentario della Garbus si concentra soprattutto su quella leggendaria sfida islandese (peccato che, tra le tante testimonianze, non ci sia proprio quella di Spassky), sui continui capricci di Fisher, che già allora manifestò la mania di persecuzione che anni più tardi lo avrebbe portato a pensare che gli ebrei stessero complottando per controllare la sua mente. Dovette persino intervenire il segretario di stato americano Henry Kissinger, dato l'altissimo valore simbolico della posta in palio, per convincere Fisher a tornare a Reykjavik, dopo che quest'ultimo aveva abbandonato per tutte le sue fisime.
Lo scacco più plateale Fisher lo fece a sé stesso, imboccando la strada di un declino progressivo che lo avrebbe collocato in una zona liminare tra vita monastica e delirio persecutorio, ad allungare dunque la casistica dei geni degli scacchi segnati da notevoli patologie psichiatriche. Nel vedere il film, attraverso un corredo di magnifiche immagini tutte in bianco e nero, si assapora il clima di quegli anni, ci si immerge in un ritratto che sta tra il delirio megalomanico del Mohammed Alì di Quando eravamo re e il genio folle di Howard Hughes, portato sul grande schermo dalla coppia Scorsese-DiCaprio in The aviator.   

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