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Amore carne

Regia di Pippo Delbono vedi scheda film

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La recensione su Amore carne

di spopola
8 stelle

E tutto cresce, e tutto sale! (Arthur Rimbaud, Sole e carne)
 
Se non vado errato, era il 2011 l’anno in cui Amore carne approdò a Venezia. Ce ne ha messo dunque di tempo per arrivare (finalmente) sui nostri schermi. Ormai comunque la sua uscita in sala è alle porte (il 27 giugno, dopo l’odierno passaggio dalla Mostra Internazionale del nuovo Cinema di Pesaro) anche se come al solito, ciò avviene con troppo, ingiustificato ritardo e in un periodo stagionale poco propizio per opere sperimentali ma dense come questa ennesima ottima prova di Pippo Delbono, che come ben sappiamo proviene dal teatro d’avanguardia con cui anche il suo cinema ha uno stretto e indissolubile contatto, ma che forse è più conosciuto per le sua qualità di attore in parti che riesce a rendere sempre “inquietanti” per quella sua straordinaria capacità di essere comunque “divergente” anche quando è diretto da altre mani (vedi Io sono l’amoredi Guadagnino, o i più recenti Cha –cha – chadi Marco Risi in contemporanea distribuzione in sala e - quasi in diretta dal recente festival di Cannes - Un château en Italiedi Valeria Bruni Tedeschi  e soprattutto Henry, delicata, bizzarra favola morale sull’elaborazione del lutto raccontata con pudore e complicità da Yolande Moreau dove ha ampiamente dimostrato che la sua statura di interprete può benissimo reggere il ruolo più impervio del protagonista anche in progetti non sui e andare così ben oltre a quello di semplice comprimario  - sia pure eccellente e carismatico - in cui è stato circoscritto precedentemente.
Pippo Delbono dunque, e la conferma che esiste pure in Italia oltre che un teatro (di cui è vessillo e portabandiera) anche un cinema “diverso” che fa provocatoria sperimentazione persino nella forma, ma al quale non si sta purtroppo dando sufficiente visibilità (e non è solo di questa endemica carenza distributiva la responsabilità, visto che in ogni caso con il web ci sono adesso molte possibilità di recupero anche con strade alternative, ma che nonostante questo, soltanto in pochi si  sono accorti non solo dell’esistenza di questo piccolo “miracolo” cinematografico, ma anche del suo intrinseco valore innovativo).
Cu troviamo infatti davanti a un’opera notevole e struggente, assolutamente in “controtendenza”, e  si può davvero ben dire che con questo Amore carne  tornano di strettissima attualità e con prepotenza, le modalità rappresentative (e le ragioni) di un cinema forte, creativo, sperimentale appunto, che in Italia (e non solo) ormai sono davvero in pochi a praticare con altrettanta perizia e amorevole “passione” e che quasi sta sparendo dalla scena.

Strutturato come una lunga, infinita soggettiva (quasi l’equivalente di quelle “fughe” in avanti realizzate agli albori del cinema con la mediazione della cinepresa)Amore carne è un film fatto di incontri, di gesti, di silenzi, di musica e di parole, un percorso dell’anima dove tutto finisce per intrecciarsi con la voce suadente del regista/attore che prova ad accompagnare il nostro sguardo di spettatori oltre le pieghe del reale muovendosi in assoluta libertà, mentre i suoi occhi che esprimono emozioni e senso attraverso le immagini, sembrano quasi incantarsi come fossero quelli di un bambino curioso ed innocente, davanti ai movimenti naturali della vita come quelli di un gruppo di anziani che ballano fra loro, o si concentrano invece ad osservare un mondo più vasto e variegato scrutato dall’abitacolo di un’auto in movimento durante un temporale, mentre il sonoro riverbera versi di Eliot e di Rimbaud che ci deliziano le orecchie e riempiono il cervello di poesia.
Girato da Delbono per una personale, sentita e profonda necessità interiore (che  parte innanzitutto dalla precisa scelta di “evocare” le cose invece di limitarsi a mostrarcele solamente), diventa il percorso di un  intenso e sofferto viaggio (in soggettiva, appunto)  dentro al proprio vissuto, e intorno ai propri “amici” che si estrinseca attraverso una serie di incontri (programmati o semplicemente “casuali”) che lo fanno diventare una spassionata e “passionale” confessione tesa a raccontare molto di se stesso quasi a volere sottolineare che ci troviamo di fronte alla testimonianza di un uomo che non si è mai lasciato travolgere ed ha lottato strenuamente anche contro la malattia che porta ancora sulle spalle, persino in tempi in cui non esistevano speranze certe di sopravvivenza (un elemento cruciale della messa in scene su cui ritornerò più avanti).
Si può allora ben dire che con questa pellicola ci troviamo di fronte a un affascinante, coinvolgente film-diario. Privo di una vera e propria narrazione in senso lato (come accade spesso con l’avanguardia), frammentato, discontinuamente fremente ma carico di autenticità e sentimento, prende forma prima di tutto dal  “dramma” personale e antico dell’autore, riproposto però in una dimensione meno terribile e con la consapevolezza dell’oggi: era sieropositivo da ben 22 anni il regista quando ha girato il film (adesso lo è da 24), ma partendo proprio dalla sua malattia che ora e per fortuna non è più così tragicamente irreversibile, ci fa avvertire pienamente e fino in fondo come il pensiero atroce della morte scorra nelle sue vene  e quanto sia ancora presente nel pensiero, costringendolo, anche adesso che il virus è diventato semplicemente uno “scomodo” compagno di viaggio che complica notevolmente l’esistenza come ogni altra patologia cronicizzata, a interrogarsi ugualmente sul senso della vita, e ad cogliere ed affastellare le tante altre cose da “osservare”, quasi da “trattenere”, puntualizzate attraverso una serie di incontri (tutti straordinari) appuntati in disordine sparso e senza troppe distinzioni dei ruoli, con immagini prive di svolazzi e di pretenziosi “vizi d’autore” qui totalmente assenti (girando insomma in forma prettamente artigianale servendosi per le riprese, di un semplice cellulare e di una piccola camera digitale, procedura che aveva già sperimentato con La paura, sua precedente opera  e che aveva utilizzato in quella circostanza per pedinare la gente lungo le strade e fissare così le espressioni “spontaneamente” rubate dai loro volti) che mettono sullo stesso piano attori, compositori, persone comuni, familiari, clinici, come  l’infermiera che gli fa compilare i moduli per il test dell’HIV, le amiche e colleghe Irène Jacob e Tilda Swinton, un anziano signore o sua madre; lo vedono contrapporsi alla serena bellezza e ai suggestivi gesti di Marie-Anglade Gillot, étoile dell’Opéra di Parigi e alla grazia aristocratica di Marisa Berenson, o lo portano a confrontarsi con i silenzi “musicali” di Bobò, il “matto” analfabeta e sordomuto “riscattato” dal manicomio in cui era stato lungamente rinchiuso diventato nel tempo il suo inseparabile compagno di scena e di  lavoro. Su tutto, si avverte l’afflato, l’alito della (non)presenza  della sua grande amica Pina Bausch (perché il film intende essere anche un toccante ricordo dell’artista scomparsa nel 2009): “colei che mi ha aperto gli occhi”,  come scrive  Delbono e che ricopre indirettamente  un ruolo importante pure qui (fondamentale, direi – e sono ancora parole del regista –  poiché con il suo semplice sguardo, era capace di farti sentire nudo davanti a lei). E’ dunque proprio dalla frontalità coreografica della sua danza che sembra germogliare la genuina ispirazione che qui si avverte prepotente, conseguente alla scelta di rappresentare in modo immediato e diretto, senza il supporto “creativo” di una storia o di un’allegoria,  la condizione umana dell’uomo e della vita. 
 
e finchè danzerai, danzerai, la morte qui seduta ti aspetterà”
 
Un film fatto davvero di “amore” e “carne”, come recitano i versi di un componimento poetico di Rimbaud, e in cui proprio il mezzo freddo e francescano del cellulare rappresenta il supporto ideale per filmare, “spiare” e “fermare” in immagini i sentimenti e le emozioni.  La sua presenza discreta accorcia infatti la distanza fra colui che riprende (il soggetto) e ciò che invece viene ripreso (l’oggetto) e rompe e annulla di conseguenza ogni sovrastruttura cerebrale, così che lo spettatore possa immergersi con spontanea adesione dentro una rappresentazione quasi sacrale, lasciandosi cullare unicamente dallo straordinario connubio fra immagini, parole e musica, il tutto giocato sul ritmo pacato con cui il regista compone praticamente una specie di lungo e ininterrotto flusso di coscienza, capace di far “danzare” anche l’occhio di solito inerte del cellulare appunto, o della piccola videocamera full HD, il ci ricorda e rimanda seppure in forma “dichiaratamente” traslata, alla primitiva formazione “creativa”di questo nostro singolare artista fuori da ogni schema, mutuata proprio dal mondo della danza.
 
La pellicola si apre con una lunga sequenza in ospedale in cui il regista fa finta di sottoporsi per la prima volta al test dell’HIV (e reitera ad uso e consumo anche dello spettatore le antiche modalità che sono rimaste immutate nel tempo nonostante le nuove frontiere aperte dalla medicina). Intreccia così nella sequenza, un dialogo quasi di stampo kafkiano e molto surreale, con l’infermiera e la burocrazia dei moduli da compilare con tutte le assurde domande che ancora contengono (e ci racconta perciò anche l’origine di quelle cicatrici nell’occhio destro con cui convive ormai da tantissimi anni che gi hanno insegnato a guardare le cose in modo diverso e meno strutturato, facendolo passare dall’osservazione furente degli inizi, a uno sguardo che si è fatto col tempo sempre più intimista, concentrato soprattutto sul ripercorrere la propria esistenza, come se avvertisse la necessità, il bisogno, di scrutarsi dentro ripensando al passato e a coloro che sono stati importanti per il suo progredire). Ed è proprio questa infinita ragnatela di rapporti empatici che la pellicola rende tangibile, che ci fa comprendere come per lui sia diventato prioritariamente proprio il cinema (e non solo il teatro come accadeva una volta) il mezzo più consono e ideale che gli dà la piena liberta di espressione, quello con cui riesce meglio e più compiutamente a dare forma alla sua poetica e alla sua sperimentazione: con una specie di movimento circolare con cui nel finale si ritorna a “toccare” l’inizio,  Amore carne intercala, mischia e confonde la realtà con l’arte, gli orrori del passato con le tragedie del presente, il tema dell’esilio con la musica di Alexander Balanescu, il terremoto dell’Aquila  con il bosco delle betulle di Birkenau, Rimbaud con gli inediti di Michael Galasso,  il pasto materno con Pasolini e la sua Ballata delle madri.
Navigando praticamente “a vista” senza timone o remi, Delbono ignora volutamente la sintassi acclarata  di ogni narrazione dribblando i suoi tradizionali (e spesso consunti dall’uso) legami logici, il che gli consente di chiedere al suo obbiettivo di ripresa, una osservazione onirica e visionaria assolutamente inedita che annulla (o forse soltanto stravolge) le categorie del tempo e dello spazio, per lo meno per come si intendono canonicamente definite, e ci racconta un presente per più di un verso “allucinatorio” passando dalla cucina della casa della madre alle camere d’albergo, o portandoci con lui in viaggio da Parigi a Torino, da Istanbul a Ginevra, da Birkenau a Budapest..
Totalmente fuori formato per struttura e contenuti insomma, il cinema del regista/attore si conferma espressivamente originale, e soprattutto un “oggetto speciale” che se ne infischia delle regole imposte dalla produzione commerciale che sceglie di operare in piena autonomia di idee e di pensiero. Qualcuno ha scritto da qualche parte (ma non ricordo più chi e dove) che Pippo Delbono (e qui ne abbiamo la riprova certa) è in grado di fare poesia con la propria pelle elevandola così alla forma più raffinata e radicale di politica concepibile oggi: sono pienamente d’accordo anch’io con questa definizione, perché come ho già detto in apertura, il regista ha davvero la capacità di parlare un linguaggio che ha una forza evocativa che va molto oltre  la semplice necessità di comunicare qualcosa e che fornisce proprio per questa sua peculiarità, infinite possibilità di suggestioni attraverso il gioco sottile dei rimandi, delle associazioni di immagini e delle analogie.
 
Il Sole, focolare di tenerezza e di vita,
versa l'amore ardente sulla terra rapita,
e, quando si è distesi nella valle, si sente
che la terra è vergine e trabocca di sangue;
che il suo immenso seno, sollevato da un'anima,
è amore come Dio, di carne come la Donna,
e che racchiude, gonfio di linfa e di raggi,
il grande brulichìo di tutti gli embrioni!

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