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Maternity Blues

Regia di Fabrizio Cattani vedi scheda film

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La recensione su Maternity Blues

di maghella
8 stelle

Maternity Blues è un film che ho amato molto prima della sua uscita in sala, grazie ad alcuni post di Spaggy su Cinerepublic, con relativi trailer, interviste e backstage, ho conosciuto questo progetto e condiviso in toto.

 

Le mie aspettative erano alte, motivate dal tema trattato nel film, il Maternity Blues, appunto, quella sindrome post partum che prende molte donne dopo aver partorito. La depressione dopo il parto può durare da pochi giorni, a settimane o mesi, nella peggiore delle ipotesi può arrivare a compromettere il rapporto con il proprio bambino o compagno. Il film in questione è in parte tratto da un’opera teatrale “From Medea” (con protagonista la brava Marina Pennafina), e infatti le 4 donne protagoniste di Maternity Blues sono un po’ quattro aspetti della femminilità di Medea: l’amante, la mamma, la figlia, la donna che sceglie la morte come soluzione alla solitudine e al senso di inadeguatezza. In effetti l’aspetto che più mi ha sorpreso della storia è proprio la struttura teatrale che ha: più che dei dialoghi ci sono dei veri e propri monologhi, che presentano le 4 protagoniste alle prese con la loro difficile storia.

 

Clara (Andrea Osvart) arriva all’ospedale psichiatrico giudiziario di un paese non ben precisato (il regista Fabrzio Cattani si è ispirato ad alcune vicende dell’O.P.G. Di Castiglione delle Stiviere ) perchè ha ucciso i suoi due bambini annegandoli, anche lei voleva uccidersi insieme alle sue creature, ma l’intervento di un passante la salva.

Nell’ O.P.G. Clara incontra altre tre donne che hanno, come lei, ucciso i propri bambini. La terapia vuole che le donne convivano, lavorino e si confrontino nelle proprie esperienze, evitando così l’isolamento e l’autolesionismo. Le tre compagne di Clara sono Eloisa (Monica Birladeanu), Vincenza (Marina Pennafina) e la giovanissima Rina (Chiara Martegiani), ben presto le tre storie si intrecciano con quella di Clara, facendo delle quattro donne quattro compagne di sventura.

 

Nella storia ha importanza anche la figura del marito di Clara (Daniele Pecci) che anche se con molta sofferenza e fatica, cerca di avere comunque un rapporto con la moglie.

 

In alcuni momenti il film appare scollegato nei vari racconti, non riesce a mantenere così il grado di tensione, alterna momenti bellissimi a scene quasi incomprensibili che risultano al limite dell’inutile, ma tutto sommato il film regge molto bene, e soprattutto i difficili momenti di ricordo delle donne riguardo ai propri bimbi sono molto toccanti, reali mai patetici.

 

Ottima la costruzione dei personaggi, si vede che alle spalle c’è stato uno studio attento delle difficili psicologie femminili, perciò non c’è stato bisogno di molti “salti nel passato o della memoria” per poter comprendere cosa queste quattro donne hanno vissuto. Bravissime tutte le attrici, ma soprattutto Andrea Osvart che ha dato una prova altissima, un personaggio pieno di sfumature, difficile, un ruolo davvero raro nel cinema italiano per una giovane attrice.

 

Il personaggio di Eloise è quello che ho sentito più vicino, perché controverso e più aggressivo: consapevole di quello che ha fatto (ha soffocato il suo bambino in un sacchetto della spesa) rifiuta il senso di colpa, recita la parte di quella che ha una vita fuori che l’attende, accusa il rifiuto da parte del suo compagno, litigiosa e polemica con le compagne, sa però al momento del bisogno farsi vicina e alleata, isolata da tutti verrà punita all’interno della struttura da altre due detenute. Eloise vede nei gatti gli unici esseri degni di avere accanto.

 

Vincenza è la detenuta più matura, più mamma-chioccia, cattolica, non si perdona di quello che ha commesso, il ricordo del suo crimine è una delle scene più forti e crude del film: con tre bambini piccoli, il neonato tra le braccia, la lavatrice da fare, il latte che bolle sul fuoco, una telefonata violenta con il marito, il volume altissimo della televisione, i pianti e le urla dei bambini....la lavatrice parte con il suo terribile bucato, il neonato non è più tra le braccia di Vincenza, che con lo sguardo perso nel vuoto sceglie di volare nel vuoto della tromba delle scale.

 

Rina è la più piccola, ragazza madre, sensibile e fragilissima, cerca di crearsi nuovi ricordi che possano offuscare quelli terribili del passato, è la figura più positiva della storia.

 

Un film importante, dunque, con qualche lacuna forse nella struttura narrativa, ma che comunque riesce a commuovere e far riflette, sulla figura materna, che troppo spesso viene idealizzata, caricata di aspettative solamente positive, facendo trovare impreparate le donne ai problemi che invece inevitabilmente si trovano ad affrontare una volta a casa, da sole con il proprio bambino.

 

Un ultimo aspetto importante del film è la produzione, o meglio l’autoproduzione, infatti il film (come spiega molto bene Cattani nell’intervista su Cinerepublic rilasciata a Spaggy nell’agosto dello scorso anno) è stato finanziato dagli addetti al lavoro: tecnici, attori che hanno dato il loro contributo economico per la realizzazione di questo coraggioso, e unico per il tema trattato, progetto.

 

Ripeto, ho amato subito questo film, sono consapevole che aprirà molte polemiche, in Italia soprattutto certe tematiche sono dei tabù intoccabili, la famiglia è intoccabile, non può essere causa di tragedie o mostri, ovviamente il caso di infanticidio è il caso limite e, per fortuna rarissimo, di una sindrome Maternity Blues, ma molte donne si sentono sole e inadeguate dopo la nascita del loro bambino, e hanno vergogna ad ammetterlo, faticando così nel trovare un equilibrio sereno. Mi auguro che il film in questione, le polemiche che sicuramente alzerà, facciano luce su un aspetto del femminile poco conosciuto.

 

Ultimo aspetto molto importante è infatti il messaggio del film: non nascondersi, non vergognarsi, confrontarsi e parlare, senza dover per forza vivere un’esperienza come gli altri, la società, la religione, i media, ci dicono che vada vissuta.

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