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La morte in diretta

Regia di Bertrand Tavernier vedi scheda film

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La recensione su La morte in diretta

di degoffro
8 stelle

"Ero una mostruosità chirurgica, un cyborg. Ero stato...violato. Mi ero offerto di mia spontanea volontà per un esperimento osceno. Avevo rinunciato a me stesso, avevo rinunciato perfino al supremo diritto dell'intimità dei miei sensi. Ero un uomo pubblico." Questo monologo, tratto da "L'occhio insonne" di David Compton, il romanzo che ha ispirato il film di Tavernier, esprime al meglio la condizione contraddittoria del protagonista. Da un lato il suo occhio guarda per tutti, divenendo appunto di proprietà pubblica; dall'altro, come uomo, è costretto paradossalmente alla più assoluta solitudine, con una vita privata completamente annullata. "La morte in diretta" dà il suo meglio, oltre che nelle convincenti prove degli attori, proprio nelle riflessioni profetiche e tutt'altro che campate in aria, sulla degenerazione e la volgarità del mezzo televisivo. Valutazioni oggettive e preoccupate, mai sentenziose o grossolane. Poi purtroppo il film perde parte della sua forza quando lascia il passo al melodramma, con la crisi di coscienza di Roddy e l'arrivo a casa del primo marito di Katherine. Un'opera a tratti fredda e cerebrale, con alcuni indiscutibili pezzi di bravura, ma meno coinvolgente del quasi contemporaneo "Quinto potere" di Lumet. Spione.

Voto: 7



"Mi sentivo anche oltraggiato. Ero una mostruosità chirurgica, un cyborg. Ero stato...violato. Mi ero offerto di mia spontanea volontà per un esperimento osceno. Avevo rinunciato a me stesso, avevo rinunciato perfino al supremo diritto dell'intimità dei miei sensi. Ero un uomo pubblico. Quello che io vedevo, poteva vederlo anche qualsiasi scalzacane voyeuristico seduto davanti ad un monitor. I nastri da me registrati potevano essere visti e rivisti per il diletto a buon mercato di un qualunque fattorino. I miei momenti più belli erano proprietà comune. E anche quelli meno belli. Se mi fissavo l'uccello mentre pisciavo, anche quell'immagine poteva essere registrata e usata contro di me. - Quell'uomo è senz'altro un maniaco sessuale, ragazza mia. Il modo in cui se lo stringeva mentre pisciava... - E se chiudevo gli occhi e me ne restavo nella più completa oscurità per uno, cinque, venti minuti, i microcircuiti retinici trapiantati dentro di me si sarebbero sovraccaricati e il dolore si sarebbe fatto atroce al punto da costringermi a rivedere la luce. Questo dunque era il prezzo e, contemporaneamente, la soddisfazione. Io ero proprietà pubblica, ed ero totalmente solo. Chi mai avrebbe osato confidarmi i suoi segreti, fossero essi del corpo o della mente? Ma io avevo dentro la mia testa la possibilità di attingere alla maggiore grandezza." Questo monologo, tratto da "L'occhio insonne" di David Compton (1), il romanzo che ha ispirato il film di Tavernier, esprime al meglio la condizione contraddittoria del protagonista Roddie. Da un lato il suo occhio guarda per tutti, divenendo appunto di proprietà pubblica; dall'altro, come uomo, è costretto paradossalmente alla più assoluta solitudine, con una vita privata completamente annullata (situazione evidente quando va a trovare la moglie Tracey e rinuncia a un momento di intimità con lei ben sapendo che sarebbe osservato dai tecnici dello studio televisivo). "Io non ero un reporter, ero soltanto un congegno che fungeva da reporter. Ero l'incarnazione della curiosità del mondo." dice ancora nel libro Roddy, privato peraltro anche del sonno, dal momento che non può chiudere mai i suoi occhi, pena la cecità (questo spiega il suo perenne bisogno di una pila elettrica da tenere accesa e puntata sui suoi occhi quando è buio). Questo ripetuto sovrapporsi dello sguardo del protagonista con quello dello spettatore è l'elemento più interessante e riuscito anche del film, lucida analisi sulla perdita della libertà individuale, ma anche sul cinismo e l'amoralità dei mezzi di informazione e della televisione in particolare. Addomesticare la morte è l'obiettivo del direttore di rete Vincent Ferriman, tanto da affermare convinto: "Guarda come temiamo la morte. E' la nuova pornografia. La nudità non sconvolge più!". Tavernier è persino brutale: il personaggio di Vincent, interpretato dall'ottimo Harry Dean Stanton, è l'incarnazione perfetta dell'uomo televisivo spregiudicato, assorbito dal lavoro e ossessionato dal successo. "Tutto le interessa, ma niente è importante!" gli dice Katherine. Vincent vuole riprendere gli ultimi giorni di vita di Katherine, interpretata da una superba e commovente Romy Schneider, per conquistare il pubblico. "Cosa vuole il pubblico, di cosa ha bisogno?" chiede dubbiosa Katherine. "Essere con lei durante questa prova. Condividerla al suo fianco. Affrontarla, subirla con lei. Niente altro!" è l'emblematica replica di Vincent. "Vincent, nessuno pensa che ciò che fai sia osceno, disgustoso?" domanda anche Tracey, la moglie di Roddie. "Oh sì, il 37 per cento lo trova spiacevole, ma restano con noi! Perché è vero. Forse troppo vero per te!" "La morte in diretta" dà il suo meglio, oltre che nelle convincenti prove degli attori, tra cui da ricordare anche il bravo Harvey Keitel fortemente voluto dal regista (mentre la produzione insisteva per avere nel cast De Niro e Jane Fonda), e negli splendidi scenari scozzesi, spesso peraltro privati del loro abituale fascino, proprio in queste riflessioni profetiche e tutt'altro che campate in aria, sulla degenerazione e la volgarità del mezzo televisivo e sulla dolorosa consapevolezza che il pensiero di Vincent è in sintonia con quello che vuole il pubblico. Valutazioni oggettive, allarmanti e preoccupate, mai sentenziose o grossolane: la realtà dei fatti è lì a dimostrarlo. Ed è inoltre interessante constatare come Tavernier, pur alle prese con un film quasi di fantascienza, rinunci a confezionare un anonimo prodotto tutto effetti e azione, privilegi una messa in scena elegante, dilatata (molti hanno scritto lirica) che evita le trappole implicite di un'operazione del genere, dia spazio principalmente ai credibili, sfaccettati ed intensi personaggi che non scadono mai nello stereotipo (nemmeno lo spietato direttore di rete Vincent), evidenziandone l'umanità, le fragilità e le meschinità, ma anche i dubbi e le paure, conferendo in questo modo alla vicenda un inquietante ed efficace carattere quotidiano, profondamente realistico e per questo ancor più disturbante. Peccato che purtroppo il film perda parte della sua forza quando lascia il passo al melodramma, con la crisi di coscienza di Roddy che si acceca per non tradire Katherine e l'arrivo a casa del primo marito di Katherine dove la donna ha deciso di togliersi la vita (parentesi peraltro piuttosto fumosa e superflua, ma è presente anche nel romanzo). Un'opera a tratti fredda e cerebrale, con alcuni indiscutibili e magnetici pezzi di bravura (la fuga di Katherine dal mercato delle pulci è straordinaria, i paesaggi scozzesi esaltati dalla prodigiosa fotografia di Pierre William Glenn tolgono il fiato) ma meno coinvolgente del quasi contemporaneo "Quinto potere" di Lumet. Comunque intelligente e coraggiosa nel metterci di fronte ad una realtà nella quale anche la morte rischia di diventare, purtroppo, uno spettacolo per tutti. Forse, insieme a "Round Midnight", il film più americano di Tavernier, quasi hitchockiano nel raccontare la fuga disperata dei due protagonisti. Non a caso entrambi i film sono stati scritti dal regista con David Rayfiel, già sceneggiatore per Pollack di quel capolavoro che è "I tre giorni del condor" (ma non accreditato ha collaborato anche a "Corvo rosso non avrai il mio scalpo" e "Come eravamo"). Dedicato a Jacques Tourneur e Delmer Daves. Due piccole curiosità: in una breve scena Romy vede un bimbo che gioca a pallone in un parco. Il ragazzino è David, figlio dell'attrice, il quale morirà tragicamente un anno dopo. Per il ruolo poi andato a Max Von Sydow inizialmente era previsto l'attore feticcio di Tavernier, Philippe Noiret. In Concorso al Festival di Berlino del 1979, candidato a 5 César (suono, sceneggiatura, fotografia, musiche e montaggio) dovette arrendersi in tutte le categorie a "L'ultimo metrò" di Truffaut.

Voto: 7

(1) Rispetto al romanzo ci sono alcune piccole varianti:

a) - il primo giornalista che si avvicina a Katherine cercando di ottenere l'esclusiva sul suo caso, nel romanzo è al centro di un inseguimento automobilistico che lo porta alla morte in un rocambolesco incidente;

b) - diversa la figura del padre;

c) - eliminato tutto l'episodio dell'orgia a casa del proprietario della tv per cui lavora Roddy;

d) - eliminati gli episodi del rapimento di Katherine e della rapina che subisce;

e) - manca il personaggio di Tommy con il suo teatrino di marionette, complice dei due fuggitivi nell'ultima parte della loro fuga.

 

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