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Naomi

Regia di Eitan Tzur vedi scheda film

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La recensione su Naomi

di spopola
8 stelle

L’Hitparzut X (questo il suo più pertinente titolo originale) corrisponde al nome con cui si definisce  l’esplosione a raggi X di due stelle – una anziana ed una molto più giovane -  che vivono in “coppia”. Un fenomeno che si verifica in genere dopo un certo periodo anche abbastanza prolungato di… (passatemi il termine) “convivenza” condivisa, durante il quale la più vecchia prima assorbe la nuova, per poi morire però (o meglio estinguersi) insieme ad essa come in una simbiosi distruttiva. E’ una curiosa, potente e suggestiva metafora che riesce molto bene a condensare il senso delle vicende narrate in questa interessante pellicola tratta da un racconto di Edna Mazaya (che si è assunta anche l’oneroso compito di  scrivere la sceneggiatura del film)  che per certi versi – pur parlando di umani – sembrano davvero voler seguire ed adeguarsi  a questo schema di astrofisica, ma che se prese semplicemente per quello che alla fine è il nocciolo centrale della questione, potrebbero essere comunque considerate  persino troppo ovvie e risapute, analoghe a tante altre viste e riviste più volte sullo schermo (Barbara Corsi nella sua recensione positiva all’opera su Vivilcinema  ha evidenziato e giustamente, che la caratterizzazione dei personaggi del film - marito maturo, giovane moglie fedifraga con amante artista, delitto passionale annesso e sotterfugi - richiama da vicino quella dei protagonisti di Unfaithful (L’amore infedele) di Adrian Lyne, a sua volta remake del più pregevole Una moglie infedele di Claude Chabrol, ma è solo un esempio tra i tanti, poiché come si può già ben comprendere da questi brevi accenni, si tratta di una tematica fra le più esplorate sia in letteratura, che dalla cinematografia di tutti  i tempi e spesso inflazionata).

Detta così, e limitandosi alle semplicistiche considerazioni derivanti da una troppo frettolosa lettura, si potrebbe quindi anche affermare senza timore di essere contraddetti, che non c’è poi molto di nuovo sotto il sole nemmeno in questo caso, ma sarebbe alla fine una errata valutazione, perché sappiamo bene che ormai è difficilissimo (quasi impossibile) sperare di trovare storie e situazioni completamente originali: gli archetipi e gli schemi (più o meno tutti) sono stati da tempo definiti, sono cristallizzati, si inseguono e si ribaltano conditi  magari con differenti spezie che sono quelle che ne variano il sapore, ma similari meccanismi dei quali è facilissimo immaginare gli esiti, e non ha forse allora alcun senso richiamarci al déja vu nemmeno in questo caso per alcuni possibili parallelismi degli eventi narrati, che poi alla fine sono solo in superficie, poiché (e non mi stancherò mai di ripeterlo e ribadirlo con forza) più che ciò che si racconta, la storia “nuda e cruda” che si mette in scena che pure ha un suo innegabile valore, è importante come la si rappresenta, con le variazioni inventive e le differenti implicazioni etiche ed estetiche che finiscono davvero per fare la differenza, una differenza che se gestita da sapienti mani, riesce a trasformare persino vicende un po’ abusate, in una materia  più densa e problematica, in un coagulo emozionale nuovo ed avvincente che si pone prepotente all’attenzione dello spettatore avvolgendolo e stimolandolo dal profondo. Senza considerare poi la novità di un protagonista  professore/scienziato a cui a ben guardare, nemmeno tutti i calcoli matematici con i quali ha assoluta dimestichezza, saranno alla fine sufficienti per dargli nel suo privato una ragione logica di un fenomeno che se in astrofisica è in grado di spiegare agevolmente e brillantemente ai suoi studenti, non è invece altrettanto bravo a gestire, comprendere e dominare nella sua vita reale, rapporto familiare compreso. 

E di valore aggiunto questa pellicola del 2010 (passata anche dalla Mostra del Cinema di Venezia dello scorso anno nella sezione della Settimana Internazionale della critica) ne ha davvero molto altro: prima di tutto la pertinente, impeccabile “forma” data al girato da un esordiente di talento come risulterebbe essere Eitan Zur che ha debuttato con un già consumato ed invidiabile mestiere proprio con questo titolo, che lo conferma regista maturo, convincente e preparato (addirittura originale per certe soluzioni adottate) e soprattutto stilisticamente inappuntabile. L’altra componente fortemente distintiva e ancora in positivo, si configura poi nel sensibile sguardo virato al femminile della sceneggiatrice/autrice del racconto (è israeliana, esattamente come Zur e si comprende chiaramente) che ci fa percepire un entroterra culturale ben radicato nella tradizione ebraica che le appartiene di diritto, con una scrittura – dialoghi compresi - molto calibrata e soprattutto cinematograficamente pertinente, permeata per altro da una buona dose di humor nero. Caratteristiche importanti e fondamentali insomma capaci di innestare in quello che appariva come un  consumatissimo plot particolarmente usurato, molti elementi importanti, innovativi e suggestivi (anche di conoscenza) sufficienti a far emergere e  portare in  assoluto primo piano, anche una figura praticamente inedita in questo tipo di storie adulterine (ma qui imprescindibile, come lo è nella cultura ebraica e non solo), che è quella della mamma del protagonista, altro elemento portante e tutt’altro che secondario per la definizione e l’analisi dei fatti, oltre che per il districarsi dentro gli snodi narrativi.

 

Passando nel concreto, la pellicola racconta in sintesi la storia di un maturo professore, Ilan (la “stella” anziana) che prova a “prevalere” (si fa per dire) su quella della bella moglie Naomi, di una ventina d’anni più giovane di lui quando accecato dalla gelosia (ma senza fare scene) decide di uccidere l’amante di lei, porta a compimento il gesto, e occulta il corpo del rivale. Preoccupata e delusa per l’improvvisa sparizione dell’amato, ma incapace di confessarsi con il marito (entrambi manterranno i loro segreti) a Naomi non resta allora altro da fare che rimanere accanto al suo compagno in passiva attesa degli eventi, come se niente fosse accaduto e senza porsi troppe domande, ma anche senza farsi “assorbire” totalmente (la fatidica “esplosione” prevista dallo schema ma che non arriverà mai: nessuno parla, e tutto resta fermo e inamovibile, fatto di intervalli quasi sospesi, necessari per poter sopravvivere agganciati come a un’ancora di salvezza, alle piccole cose di ogni giorno, quel romanticismo negato insomma secondo cui, per essere felici – o almeno illudersi di esserlo – occorre tenere a bada i propri sogni, e una volta che sono fuggiti, basta chiudere la porta del recinto e non pensare a come e perché sono volati via, come ha giustamente scritto con la consueta precisione “critica” OGM nella sintesi finale della sua bella opinione che viene immediatamente prima della mia e che definisce proprio con queste parole il senso più profondo del film: a OGM va pure la mia gratitudine perché è stato proprio ciò che ha scritto su quest’opera che ha suscitato in me la voglia e l’interesse di darmi da fare (fino a riuscirci, ma con non poche difficoltà) per appropriarmi della sua visione, che mi ha ripagato ampiamente del sacrificio della ricerca, perché Naomi – che brutto titolo è stato scelto per l’Italia!!! Comprendo che l’originale poteva sembrare a qualcuno impresentabile, ma con un po’ di buona volontà si poteva fare ben di meglio e trovare soluzioni più soddisfacenti anche in termini di appeal mediatico – è a tutti gli effetti un altro nobile desaparecido da troppo tempo in attesa di uno sdoganamento che tarda ad arrivare (il listino è quello “minimale” della “Bolero Film”) , che consenta per lo meno una distribuzione anche parziale nelle sale d’essai della penisola.

 

Lo schema classico è dunque quello di molti melò come si è già visto, con al centro l’omicidio passionale e il successivo tentativo di riavvicinare la moglie dopo l’eliminazione (impunita) del rivale anche dopo il ritrovamento del cadavere prontamente nascosto, il tutto però narrato con un realismo limpido, pacato ed essenziale, che lo rende un percorso diverso e originale perfettamente inserito in una cultura (quella ebraica appunto) che mette in evidenza fra le altre cose le contraddizioni anche antropologiche di una specifica formazione etica e comportamentale, a partire dalla relazione “subordinata” che il nostro protagonista – Ilan - ha con la propria madre, prevaricatrice e manipolatrice come poche altre (guardarsi sempre dalle genitrici troppo complici, sembra voler suggerire l’opera) in un controverso rapporto di dipendenza molto complesso, radicato e inamovibile, certamente subito dall’uomo, ma anche ricercato, del quale alla fine scopriremo le motivazioni psicoanalitiche che sono l’origine del tutto.

Toccherà  proprio a lei comunque, a questa madre “leonessa” e chioccia al tempo stesso, provare a rimediare ai “guai” del figlio, e lo farà con molto cinismo e altrettanta assoluta dedizione, fino alla inevitabile prova estrema che toglierà però purtroppo a Ilan anche l’ultima possibilità di espiare la sua colpa, decreterà la definitiva impossibilità di purificarsi attraverso una punizione esemplare, il che può rappresentare davvero la condanna peggiore per un assassino con la coscienza anche se un po’ in letargo, per di più ebreo di religione.

La procedura narrativa è controllatissima e molto meditata. Di conseguenza,le emozioni come la gelosia, l’ira, il tradimento, la subordinazione, e la dipendenza oltre che la menzogna, tutti sentimenti al calor bianco insomma che sappiamo bene come possono essere esasperati per fare audience,  sono qui volutamente stemperati e ridotti solo a piccole vampate che si estinguono subitaneamente e non “intaccano” una struttura lineare e quasi matematica, che sembra volersi  avvitare su se stessa, proprio nella spirale di frustrazione che avvolge e trascina un protagonista che non riesce ad essere amato, ma nemmeno punito, e che proverà a un certo punto (e per la prima volta con un certo gusto) ad esercitare una crudeltà verso chi gli sta accanto giocando un ruolo che non era mai stato il suo nemmeno nel momento del “misfatto” (la scena nel ristorante con Naomi ne è un esemplare ed illuminante esempio) ma (e torno ancora a ciò che ha scritto Barbara Corsi) lo fa comunque restare sempre un dilettante in  “apprendistato”, se si confronta il suo gesto con il sadismo beffardo della genitrice.

Nel film come ho già detto, ci sono poche scene madri (come si sogliono definire quelle dove si punta al coinvolgimento emotivo dello spettatore calcando la nano sul al pathos estremo): i momenti davvero importanti, quelli magistralmente descritti dal regista, sono infatti  quelli in cui accade poco o nulla,  quando si resta indifferenti anche al dolore (e ci si prova a farlo persino con le proprie colpe, tentando di tenere a bada la coscienza).

Buona anche la prova dell’intero cast, che conferma un parterre di attori di eccellente  levatura: Melanine Pieres, Yossu Pollak, Oma Porat e Sulheil Haddad, così come le melangiate nuances di una fotografia sfumata e pertinente, in perfetta sintonia con il soggetto e la realizzazione registica della storia.

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