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Country Strong

Regia di Shana Feste vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Country Strong

di Spaggy
6 stelle

Pur essendo un film girato nel 2010, chi non avesse informazioni o non conoscesse le star presenti nel cast potrebbe tranquillamente pensare di essere di fronte ad un melodramma degli Anni Cinquanta, diretto dalla mano di Douglas Sirk. E l’idea è rafforzata se si pensa all’origine stessa del termine melodramma: azione scenica che accompagna il canto all’interno di un’opera lirica. E di azione scenica e di canto “Country Strong” è pregno, tanto che provare a delinearne la trama si rischia di apparire criptici: la regista e sceneggiatrice Shana Feste, alla sua seconda opera, riempie la storia di tanti elementi forse per provare a colmare i buchi di sceneggiatura e i perché non trovano risposta sin dall’inizio. In poche parole, si potrebbe dire che il film narra la parabola discendente della cantante Kelly Canter, star milionaria e famosa del genere musicale a stelle e striscie per eccellenza, il country. Ma si finirebbe per alterarne il senso e lo svolgimento: verrebbe a mancare il perché del finale moralista e retoricamente moraleggiante.


Baciata dal successo (6 Grammy Adwards, gli Oscar della musica, e 7 dischi di platino vinto), amata dalla critica e dal pubblico, Kelly (Gwyneth Paltrow) si ritrova improvvisamente a dover affrontare la sua vita e la debolezza della sua psiche. Infatti, durante un concerto a Dallas, la star precipita da un’altezza di tre metri perdendo il bambino che stava aspettando. La causa di tale caduta è l’elevato tasso alcolico che la donna presenta. Nel tentativo di disintossicarsi trascorre un anno in una clinica di riabilitazione, dove conosce un giovane paramedico, Beau Hutton (Garrett Hedlund). Anche Beau ha la passione per la musica country, scrive canzoni che si diletta a cantare in un piccolo bar del posto. I due hanno una visione differente del country: più commerciale quella di Kelly, più autoriale quella del giovane. Tra i due, che trascorrono molte ore insieme, si instaura un rapporto ambiguo, fatto di canzoni strimpellate alla chitarra e giocato sul filo dell’adulterio: Kelly è infatti già sposata con James Canter (Tim McGraw), che le fa anche da manager. Ed è proprio James che decide di far uscire Kelly dalla clinica qualche settimana prima del previsto. Nonostante la donna non sia ancora pronta per ritornare in scena, il marito ha fissato tre grandi concerti di rientro in giro per gli States: il primo si terrà a Houston, il secondo a Austin e il terzo a Dallas, nella stessa arena in cui la donna era precipitata dal palco. Superata la diffidenza iniziale e ottenuta in cambio la possibilità di poter portare con se una piccola quaglia che aveva raccolto appena caduta dall’albero, Kelly accetta i tre impegni.


Ad aprire i tre concerti, sono chiamati anche due giovani emergenti: la reginetta del country locale, Chiles (Leighton Meester), per imposizione di James che vede in lei una futura star del country pop, e Beau. Ha inizio così una sorta di quadrilatero amoroso mai consumato a pieno. James sembra affascinato dalla giovane Chiles e Kelly soffre di gelosia, considerando anche che tra lei e il marito c’è ancora qualcosa di irrisolto legato alla perdita del loro bambino. Kelly vede in Chiles una rivale in amore, la sua preoccupazione maggiore non è legata alla musica o al possibile successo della giovane: nonostante abbia un rapporto clandestino con Beau, l’unica persona di cui Kelly è innamorata e da cui sembra dipendere è il marito James.


Le prime due tappe del tour sono un disastro annunciato a causa della ricaduta della donna nell’alcol. A Houston sarà costretta ad abbandonare il palco dopo un paio di minuti, in preda ad una crisi di pianto mentre ad Austin non riesce neanche a presentarsi sul palco. La donna è ancora emotivamente fragile ed ogni occasione sembra perfetta per attaccarsi alla bottiglia: ad Houston era rimasta vittima di uno scherzo macabro (aveva ricevuto una bambola insanguinata in camerino) mentre ad Austin aveva visto la giovane Chiles in sala d’incisione mentre intonava una canzone che avrebbe voluto da tempo cantare lei (“Coming Home”). L’organizzatore del tour vorrebbe annullare anche l’ultima tappa a Dallas ma Kelly fa di tutto affinché il concerto sia tenuto.


Resasi conto dell’amore nato tra Chiles e Beau, Kelly non avverte più la rivalità con la ragazza e decide di regalare al marito la serenità e la stabilità di un tempo. A Dallas, il concerto è un trionfo: il pubblico è in visibilio e Kelly sembra più in forma che mai, riuscendo a cantare anche la “sua” “Coming Home”. Ma la stabilità dura solo un attimo, nel dopo concerto la tragedia incombe: Kelly decide di non uscire mai più dal suo camerino, dal piccolo universo in cui la sua mente si era rinchiusa.
 
È chiaro sin da subito su cosa gioca il film e dove si andrà a parare, si può tranquillamente che ogni azione e ogni conseguenza siano prevedibili, telefonato sarebbe il termine con cui si può riassumere il giudizio su tutto il film. Anche la fine si intuisce già a metà della pellicola. Eppure non si smette mai di sperare di vedere l’happy end, un guizzo di fantasia che potrebbe ribaltare ogni concezione e ogni delineazione psicologica del personaggio di Kelly. Esasperando i toni e il paragone, si può affermare che il delirio della protagonista sia paragonabile al delirio del personaggio di Nina in “Black Swan”: entrambe non sono capaci di gestire il fuoco dell’arte e di coniugarlo con la propria vita privata. La danza come nemesi per Nina, il canto come nemesi per Kelly. Entrambe non riescono a vivere e gestire i propri pensieri, i propri incubi e le proprie debolezze. Entrambe legate ad una famiglia che pretende ed esige molto e allo stesso tempo non da nulla. Ma, mentre Aronofsky mette in scena la visionarietà della mente della sua protagonista, la Feste, pur ricorrendo al tema delle passioni, non riesce a rendere il pathos e ne perde in climax. E non è una questione di passione, è un problema di scrittura e di vuoti. Lo spettatore è costretto più di una volta a porsi domande che non trovano risposte, la regista non fa neanche lo sforzo di ricorrere ai flashback per spiegarci cosa è avvenuto: il film si apre quasi in medias res. Il fattaccio, la caduta dal palco, è già avvenuto, Kelly sta quasi per uscire dalla clinica. Si apprende cosa è successo col contagocce, gli elementi sono disseminati per il film e spetta alla voce fuori campo dei giornalisti raccontare per intero quella maledetta sera a Dallas. Ed allora parte la sfilza di domande: perché una donna che ha tutto nella vita (soldi, fama, amore, realizzazione personale, una famiglia quasi completa) improvvisamente cade nel baratro dell’alcol? Cosa spinge una star della canzone a ripetere il cliché della cantautrice maledetta? Perché una donna raccontata come forte e determinata si lascia travolgere in questo modo? Cosa era accaduto prima di tale evento? È possibile credere che la colpa sia solo da imputare alla pressione dei mass media (a cui si accenna solo prima della terza tappa del tour sul finale del film)? È possibile che il marito, che tanto sembra amare la sua Kelly, la vada a prendere in clinica prima della fine del percorso prestabilito? Come mai pensa già ad una sua possibile erede? Dobbiamo, poi, forse credere alla casualità del paramedico aspirante star del country che cura la star più importante del country stesso? Quante probabilità esistono che un fatto del genere accada? Quali sono i reali rapporti tra Kelly e Beau (si vede solo un bacio tra i due a Houston e un rifiuto a far sesso da parte di Beau durante la tappa a Austin)? Perché si gioca la carta della piccola quaglia come simbolo del figlio perduto per poi abbandonarla senza tanti dubbi o remore? È logico mettere una bottiglia di alcol nel camerino di una persona che sta per uscire dalla sua dipendenza? Cosa spinge Beau ad innamorarsi di Chiles quando i due non si tollerano sin dall’inizio? Perché un finale così moralista e moraleggiante in cui la fama di Kelly soccombe all’amore e in cui la rivalsa dell’amore sulla fama è affidata a Beau e Chiles? Perché si sceglie di rendere tutti vittima di un sistema sbagliato e drogato sin dall’inizio?


Eppure… eppure il film ha la sua dose di fascino. Gioca su istinti bassi, li circonda e li annienta. E si entra subito nell’ottica del piacere colpevole della visione per vari motivi. Primo tra tutti, è inutile negarlo, la passione che si mette nel costruire l’ambiente musicale country. Ci vengono subito prospettate due differenti correnti: quella più cantautoriale e di nicchia, rappresentata da Beau, e quella più commerciale e di massa, rappresentata da Kelly e, in piccolo, anche dalla giovane Chiles. Sono due modi differenti di vivere il concetto di arte ma anche di star. E il finale rimarca questo aspetto duplice e bivalente, nonostante si scelga di far prevalere l’amore e la visione intimista: Beau deciderà di trasferirsi in California e continuare a suonare in un piccolo bar, con la sua camicia a quadri, i suoi jeans, il suo cappello da cowboy e la sua chitarra al collo. Del resto il bagno di folla dei concerti non lo aveva cambiato, aveva sempre rifiutato l’acclamazione delle fan e delle telecamere dei giornalisti. Dopo qualche tempo lo raggiungerà anche Chiles, rinunciando al mondo di lustrini e paillettes, di fama e di soldi che le si potrebbe prospettare, nonostante i sogni di gloria e riscatto che la ragazza ha da sempre seguito e perseguito. E il motivo della loro scelta è stato suggerito proprio da Kelly prima del concerto a Dallas, quando visitando i due giovani nei loro due camerini consiglia ad entrambi di seguire sempre l’amore, l’unica cosa che conta nella vita.


Ed è sul piano dei rapporti tra la gestione della fama e la gestione della vita privata che gioca la maggior parte del film. In fondo, quello che emerge è che Kelly non è stata capace di gestire il suo successo e ne è stata travolta con violenza. La mente corre a tutte quelle star che non sono riuscite a rimanere salde, si pensa a Britney Spears per esempio e al suo crollo psicologico, all’ossessione dei media nei suoi confronti e al mondo delle apparenze dello star system (conferenze stampa appositamente costruite per rimarcare che tutto va bene, paparazzi appostati dietro ogni angolo per immortalare le ultime bizzarrie, eventi di beneficienza appositamente studiati a favore delle telecamere della televisione). Nonostante Kelly sia descritta come una donna forte e determinata (di cui conserva ancora qualche reminiscenza nel momento in cui circuisce l’organizzatore del tour per convincerlo a tenere la tappa conclusiva nonostante i due concerti andati a male), noi ne conosciamo solo la debolezza e il crollo, la follia e l’inevitabile scelta finale. Kelly è forse troppo stanca di lottare, le sue forze sono morte nel momento stesso in cui ha perso il bambino che aspettava. Dopotutto, è lei stessa che ci confessa che il suo sogno più grande è quello di avere una figlia ma non riesce a superare l’abbandono affettivo del marito, incapace di andare oltre, fermo al dolore di un anno prima. La scomparsa definitiva, il suicidio, il suo diritto di scomparire dai riflettori della vita è l’unica via di fuga possibile: paradossalmente era ormai tanto visibile (al pubblico, ai mass media) da essersi resa invisibile (al marito, a se stessa), era rimasta sola nonostante il sold out del suo ultimo concerto. Anche se la stessa scelta la renderà immortale per sempre, come una delle protagoniste delle sue canzoni di vita, impressa nella memoria collettiva: l’ultimo concerto è vissuto come una sfida, tanto che la regista indugia particolarmente sul percorso che separa Kelly dal camerino al palcoscenico. Va in scena l’ultimo combattimento sul ring (metafora sottolineata anche dall’asciugamano bianco nel percorso di ritorno al backstage), perfetto dal punto di vista tecnico, vittorioso per il risultato e la messa in scena ma un vero knock out per la psiche di Kelly. Il knock out è anticipato anche dai consigli dispensati da Kelly alla giovane Chiles prima di andare in scena, si percepisce subito la resa e l'addio definitivo.


Rimane il rammarico di non conoscere mai i pensieri della donna, anche nel rapporto con la giovane “rivale”. I toni da “Eva contro Eva” assunti inizialmente da Kelly nei confronti di Chiles si smorzano nel momento in cui non vede più nella ragazza l’ostacolo tra lei e James, il marito. Peccato, però, che a queste conclusioni si arrivi per deduzione e non per la messa in scena: è come se la regista/sceneggiatrice avesse scelto di lasciare allo spettatore una libera interpretazione. Così come libero è il pensiero che riguarda, ad esempio, le origini familiari di Kelly e i motivi che la portano a bere. Si ha la percezione di qualcosa di irrisolto nel rapporto con la madre nel momento in cui, stremata dall’alcol, in auto racconta a Chiles di voler una figlia femmina a cui far fare diverse cose, forse le stesse che sono state negate a lei.


Ciò che rende il film un prodotto da vedere è sicuramente l’interpretazione degli attori. Gwyneth Paltrow, che già aveva dimostrato le sue doti canore in altri film (“Duets”, ad esempio, o “Infamous”), è davvero credibile nei panni della star che calca i palcoscenici musicali (vedere le movenze e la gestualità del concerto finale), in un’interpretazione che la chiama in continuazione a cambiare umore, passando dal pianto al sorriso, dallo stato d’ebbrezza alla diva da copertina. Inoltre, regala un concerto finale in cui, al di là della performance musicale, si impone per presenza scenica e trasporto. L’attrice si è impegnata per l’Academy, credendo che il country porti bene (vedasi gli Oscar a Reese Whiterspoon in “Walk the Line”, a Jeff Bridges in “Crazy Heart”, a Robert Duvall in “Tender Mercies”, a Sissy Spacek in “La ragazza di Nashville”) ma finendo col rimanere imprigionata in un film che mai decolla. Notevole è anche l’interpretazione del giovane Garrett Hedlund che ci regala un Beau a metà strada tra il “bello e il dannato” e l’ottimo cantautore lontano dal mito del successo, sorprende che l’attore insignificante di “Tron: Legacy” sappia essere credibile e abbia qualche dote recitativa. Così come Leighton Meester riesce a rendere credibile l’idea del sogno americano di emancipazione e riscatto, nonostante un personaggio poco credibile nella sua evoluzione, dando la percezione che davvero l’esperienza nelle moderne serie televisive (“Gossip Girl”, in cui recita, pur essendo un prodotto destinato a un pubblico giovanile, è una vera e propria palestra formativa, alla stregua di ciò che “Dawson’s Creek” è stato per Michelle Williams) serva alla crescita di un attore. Innocuo, invece, Tim McGraw, forse perché impegnato in un ruolo che non richiede grande sforzo, nonostante sia decisivo per la tragedia rappresentata.


Ottima infine è la colonna sonora (due pezzi su tutti, “Coming Home” cantata dalla Paltrow e “Give In To Me”, eseguita in duetto da Hedlund e dalla Meester), affidata agli stessi attori protagonisti, anche se chi si aspetta del country puro rimarrà deluso dalla deviazione pop delle canzoni. Ma, come già rilevato, questo è il problema minore della non riuscita della pellicola.

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