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I fucili degli alberi

Regia di Jonas Mekas vedi scheda film

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La recensione su I fucili degli alberi

di EightAndHalf
8 stelle

Into the very mouth of our madness.

 

 

Un uomo, vestito con giacca e cravatta, valigia alla mano, cammina in un campo di cavoli come una parodia immaginaria, e punta l’indice verso di noi con più veemenza di Uncle Sam. Come è possibile che una persona si suicidi, nel 1961? Così come una voce sembra proclamare a pieni polmoni in sottofondo, il peggio sembrerebbe essere passato: le guerre mondiali, le più timorose minacce della bomba atomica (nel ’61 non eravamo magari all’inizio, ma sicuramente neanche alla fine della Guerra Fredda). Eppure per insofferenza o per noia sembra che il suicidio sia la risposta più facilmente contemplabile, almeno per Frances, che è esausta di affrontare un destino aut-aut assolutamente imprevedibile (il suo essere o la sua vita?). Al suo fianco un uomo (Adolfus Mekas) che vaga solitario per la periferia di New York, ascoltando le parole di Allen Ginsberg in sottofondo e sognando la sua triste realtà e non certo un’evasione, con quei terribili omiciattoli che pronunciano parole di filosofica disperazione (siamo nati animali, non moriremo animali?). A fronteggiare la vita nonostante le sue insidie sono invece Argus e Ben, una donna e un uomo di colore che sono capaci di saltellare per strada e tramutare in trasognanti gli assordanti rumori della metropoli nonostante le insidie, le voci scoraggianti (prima o poi, chiunque molla), le tragiche sfacciate piccole grandi tragedie della vita che li schiaffeggiano quando l’alcol sale al cervello di Ben e non è per niente una fuga. Si capovolge il binomio sogno-realtà, non si riesce a rispondere univocamente alla domanda: in cosa si può trovare una seppur minima salvezza?

 

 

Guns of the Trees è il resoconto bizzarro ed esasperato, frammentato e discontinuo, di uno smarrimento esistenziale che parte da un’insofferenza verso il proprio periodo e il proprio Paese, con tutte le conseguenze materiali del caso, per arrivare ad affrontare faccia a faccia il non-senso della vita, quello che un paesaggio sempre uguale, soleggiato o piovoso che sia, non sembra contraddire. Uno scoramento, quello sui volti dei protagonisti, che Mekas non può fare che seguire con fare attonito e sommesso, scollegando le parole dalle immagini, introducendo, in questa sua prima opera importante (fondamentale ma pressocché sconosciuta), quello stile ipercinetico e schizofrenico che sembra voler coprire proprio lo scoramento dell’autore, capace di empatizzare con i suoi protagonisti nonostante la scorza di evidente ermetismo. Il costante riferimento alla poesia beat e il suo carattere paradossale, da liriche estremamente pessimiste fino a curiose sognanti speranze (siamo tutti girasoli, dentro di noi), non rende il tutto pretestuoso, invecchiato, datato, né ipocrita o vanitoso, ma sembra il modo più naturale per ricercare almeno stilisticamente quella libertà che il mondo ha ostacolato nella recente Storia. E’ un film, Guns of the Trees, che si potrebbe definire di facili difetti e complicatissimi pregi, in quanto è molto più facile che uno spettatore oggi risulti infastidito dalla logorrea attivista delle voci del film piuttosto che illuminato dalle sue meste rivelazioni: ma l’anarchismo della mise en scène non può essere considerato qualcosa di diverso da una vera e propria ricerca di libertà che la regia persegue così come i personaggi. Non ci sono divisioni, non ci sono scale sociali né caratteriali, siamo tutti sulla stessa barca, siamo tutti costretti ad affrontare l’ignoto.

 

 

Guns of the Trees è un canto del cigno, che fa crescere fiori amorfi di vitalità nel bel mezzo delle untuose macerie dell’Occidente del secondo Novecento.

 

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