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C'è chi dice no

Regia di Giambattista Avellino vedi scheda film

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La recensione su C'è chi dice no

di LorCio
6 stelle

Mio padre è falegname, figlio di falegname. Mia madre ha una laurea in architettura messa nel cassetto dopo la nascita di mio fratello grande. Suo padre, mio nonno, fa ancora il geometra: se non lavorasse, morirebbe. Io faccio parte di una famiglia che s’è dovuta fare sempre il cosiddetto mazzo. Se studio a Bologna è grazie ad una specie di borsa di studio che ho ottenuto grazie al reddito famigliare, sennò col cazzo che potevo trasferirmi da Francavilla. Però, tutto sommato, non mi è mai mancato niente, e ringrazio quel dio in cui non ho mai creduto di aver avuto una vita serena e tranquilla. Insomma, perché dico queste cose? Perché per vent’anni ho dovuto campare tra figli di farmacisti, figli di avvocati, figli di medici, figli di sindaci, figli di chiunque. Gente che costringeva i vicepresidi a costituire classi scolastiche a proprio piacimento, che in un modo o nell’altro riusciva sempre a cascare in piedi (mentre noi altri ci siamo sempre fatti male al culo), che alle feste patronali dà la donazione più alta per farti sentire una merda, a te che più di tanto non puoi dare. E poi le borse di studio, non parliamo delle borse di studio, o dei voti taroccati all’esame. E cosa governa questo mondo? Non i soldi, ma il potere. E uno può essere potente pure con le pezze al culo. Finché ci sarà qualcuno che te lo leccherà, quel culo, stai tranquillo. Ok, lo so che sono stato un po’ duro, però quando abiti in una piccola città queste cose diventano gigantesche, insopportabili, irritanti.

 

Perché questo preambolo? Perché c’è un grave problema che avvolge questo film. Sì, si dirà, finalmente parliamo di raccomandati, di questa terribile piaga tutta italiana, e via dicendo. Ma a che pubblico si rivolge C’è chi dice di no? Voglio dire, è ovvio che a farci una brutta figura sono i Pino Conca, i professori Fenaroli, i presidi De Fornaris, i dottori Crocetta e via discorrendo. E che gli eroi buoni sono i Samuele, i Max, le Irme. Si rivolge ai primi vittoriosi o ai secondi sconfitti (e falliti)? Ma alla fine chi vince? I buoni non vincono mai, e siamo d’accordo. Ma perché, se proprio non si vuole far vincere i buoni, non si ha il coraggio della cattiveria? Perché una volta arrestati e condannati viene concessa loro una specie di triste serenità? Ciò che mi lascia perplesso è proprio questa mancanza di coraggio, questo presentarsi come un leone (fare stalking ai raccomandati) per poi emettere il verso di un gattino. Più che l’apologo che avrebbe voluto essere, è una storia sui mezzi che giustificano il fine.

 

Fabio Bonifacci (che, come ho già detto altre volte, è una delle penne più piacevoli attualmente) parte a razzo, recupera qualcosa dello spirito degli scherzi di Amici miei (e dopotutto siamo a Firenze), per qualche momento s’improvvisa pure film civile e militante (soprattutto grazie al tremendo e corrottissimo personaggio disegnato dal colossale Giorgio Albertazzi)… e poi? E poi gli manca trenta per fare trentuno, sceglie la via più democraticamente sciapita e non riesce a spiccare il volo. Cosa resta? Resta una bella idea non sempre ben sviluppata (ma comunque un’idea bella resta tale), qualche spunto interessante (il discorso sulla meritocrazia fasulla, l’idiozia del personaggio di Marco Bocci, la struggente immagine di Sara Valli, cervello della giurisprudenza costretta a vendere salsicce), Albertazzi, Paolo Ruffini e una canzone sui titoli di coda che merita più di un ascolto (sono i grandi Baustelle). Amarissimo ma anche buonista, ambizioso ma forse solo carino. E, piccola postilla, la prossima volta che vedo un riferimento-omaggio-celebrazione degli anni ottanta in una commedia italiana, mi alzo e me ne vado a priori.

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