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Due vite per caso

Regia di Alessandro Aronadio vedi scheda film

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La recensione su Due vite per caso

di giancarlo visitilli
6 stelle

Liberamente ispirato ai fatti del G8 di Genova del 2001 e al libro “Morte di un diciottenne perplesso” di Marco Bosonetto, oltre che ad essere stato molto apprezzato alla scorsa Berlinale, è l’opera prima di Alessandro Aronadio.

I pretesti, e quindi la costruzione del film, sono gli stessi del bellissimo Sliding Doors (1998): piove e Matteo e il suo amico corrono in macchina, per raggiungere il pronto soccorso. Tamponano un’auto della polizia con due agenti in borghese che, a dir poco indispettiti, decidono di picchiare selvaggiamente i due ragazzi. L’alternativa: Matteo potrebbe frenare in tempo e il peggio, forse, sarebbe evitato. Insomma, due possibili scelte per il giovane precario Matteo Carli, una sorta di sfida doppia, per un giovane disadattato ventiquattrenne, che “tira a campare”, lavorando in una serra, ed ogni giorno deve inventarsi un perché in situazioni e ambienti saturi di prospettive alcune.  

Atipico nello stile, il giovane regista Aronadio è molto bravo a fotografare il disagio, e in particolar modo quello giovanile. Non solo perché, è cronaca di questi giorni, il giovane attore, Lorenzo Balducci é al centro delle cronache, in seguito alle accuse per cui il padre Angelo lo avrebbe favorito nella carriera cinematografica, in realtà è per la giovane promessa di Alessandro Aronadio che si può dire “buona la prima”, soprattutto in rapporto alla capacità di raccontare, non affatto in modo banale, la precarietà giovanile del Belpaese.

Ci sono, nel film, molti riferimenti letterari e cinematografici: non è un caso, per esempio, che Matteo viva nell’ eterna e passiva attesa di un’occasione, frequenta un locale che si chiama “Aspettando Godard”. Ma come non pensare anche a La rabbia giovane (1973) di Malick, visto che la storia non fa altro che mostrarci una sorta di attesa di una rivoluzione, che in realtà non esiste e a cui non si sta neanche tentando di dar vita? Ne deriva, senza possibilità di evitarla, appunto, quella rabbia giovane, non affatto giovanilistica, ma capace di essere rappresentativa di un’Italia in cui tanti, come Matteo, sono sottomessi alla dura legge dell’impossibilità di scelta. Si tratta della reale condizioni in cui le possibilità per costruirsi un futuro dipendono sempre più spesso da imposizioni di una società cieca e accecante. Motivo per cui, anche Matteo, come Antoine Doinel de I 400 colpi (1959) di Truffaut, nel finale, congelato in un frame, con lo sguardo in macchina, sembra voler interloquire con lo spettatore, per chiedergli: “Con quale diritto mi giudichi?”. Nessuno sarà pronto a scagliare alcuna pietra.

Giancarlo Visitilli

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