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Un matrimonio all'inglese

Regia di Stephan Elliott vedi scheda film

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giancarlo visitilli

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La recensione su Un matrimonio all'inglese

di giancarlo visitilli
8 stelle

Per chi non ha mai visitato una mostra di pittura Fiamminga, di autori come Jan van Eyck, Rogier van der Weyden, Hans Memling e Antoon van Dyck, questo é il film per rimediare.
Rispolverando una pièce teatrale di Noel Coward, il regista australiano, Stephan Elliott (Priscilla, la regina del deserto, The Eye - Lo sguardo), dipinge una commedia elegantissima e sofisticata, anche dal punto di vista del political (s)correct. Già Hitchcock aveva girato una versione muta dell’opera di Coward, ma nulla, rispetto a questo bellissimo lavoro di Elliott, ch’è evidentemente attentissimo alla precedente tradizione della commedia alla Hawks, Cukor e Wilder, tutti, comunque, figli di Wilde.
Tutto è ambientato elegantemente negli States dell’inizio degli anni '30, quando il Jazz aveva già espresso quel fervore culturale che riuscì a cambiare gli stili non solo musicali, ma la vita della gente. Un’America all’avanguardia, a differenza della calma piatta che vige, contemporaneamente, in Inghilterra, specie nella nobile campagna, in cui a dettare legge comportamentale della countrylife erano le famiglie nobili e quelle di potere, fortemente legate alle tradizioni e molto conservatrici. Così è, per esempio, la famiglia della Mrs Whittaker, modello “e qui comando io e qui è casa mia”, destinata a fare i conti con l’area di novità che proviene direttamente dall’altra parte del mondo, quando nella sontuosissima residenza di campagna, fa ritorno il primogenito John, accompagnato dalla sua stravagante compagna, Larita, di origini americane.
L’ironia, la scrittura farsesca, il sarcasmo e l’assurdità caratterizzano anche in modo più pungente, rispetto a Coward, questo gioiellino di film, che ne ha da dire ancora tante nei confronti della società inglese e non solo. Alla maniera dell’altro bellissimo film The Queen di Frears, Elliott dipinge, in modo minuzioso, alla maniera delle tele ad olio dei fiamminghi, i rituali della rinomata tradizione inglese, le sue buone maniere, le gag, le battute, la vita nel suo insieme. Ma quel che ha di suo è il punto di vista: ora dall’interno di un inserto di quotidiano, più volte da dentro pareti di specchi, che nonostante le forme convesse, mai storpiano la reale grettezza dei personaggi, assoggettati ai volti dei cervi, dei cinghiali e dei tanti animali che abitano quella residenza.
Quel che maggiormente impreziosisce il film di Elliott è l’uso intelligente, ma molto raffinato e curato, delle musiche utilizzate: dai grandi classici del jazz, al can can, passando anche dal sensuale tango, merito del lavoro di un grande maestro come Marius de Vries, compositore già per Moulin Rouge!, che ha remixato alcune canzoni contemporanee col sound ‘sporco’ dell’epoca.
Grande la prova degli attori, in modo particolare quella dell’amato Firth, insieme alla coppia al femminile Scott Thomas-Biel, tradizionalista l’una e yankee l’altra, ma entrambe vitalizzante dal classico humor inglese. Tutti capaci di mantenere i tempi comici in modo eccezionale e senza mai stancare, per il ritmo generale della pellicola, che tra ironia e cattiveria, è molto scoppiettante.
Basterebbe la frase “Venere di Milo, ti presento la venere di Detroit”, per comprendere la necessità di fare attenzione all’importanza di questa commedia così antica, ma assolutamente sempre nuova, anche per la politica del nostro paese. A prescindere dall’hight, middle o short class.
Giancarlo Visitilli

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