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Jerichow

Regia di Christian Petzold vedi scheda film

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La recensione su Jerichow

di EightAndHalf
4 stelle

Il quinto lungometraggio cinematografico di Christian Petzold, che si è reso celebre in numerosi festival e concorsi con il recente discreto La scelta di Barbara, vira ben presto, come il suo film successivo, verso la pericolosa rotta dell'insignificanza. Mentre il suo sguardo vorrebbe essere pregno di allusioni e di significati, poiché contempla strategicamente eventi quotidiani senza prendere posizione né esporsi troppo, la sceneggiatura latita fra momenti di insistita loquacità, che si rivelano spessissimo spiegoni imbarazzanti che dànno la misura della storia più di quanto facciano le immagini (vedi proprio la scena iniziale, totalmente slegata dalla narrazione), e momenti silenziosi in cui si possono osservare i volti impietriti e incapaci dei vari caratteristi principali. Se infatti il protagonista sembra fare (male) il verso a Daniel Craig, con la sua recitazione tutta per difetto e per sottrazione, sempre con uno sguardo da duro che vuole (vorrebbe) lasciar presagire, più volte, l'impulso della passione o il sentimento amoroso, la protagonista femminile fa un lavoro di ordinaria amministrazione (e come figura non ricorda poco la Barbara del successivo film di Petzold) e il co-protagonista è forse il culmine rischioso di un film che tenta di essere ambiguo e ci riuscirebbe anche se non fosse per una distribuzione equa e programmatica di pregi e difetti tra i vari personaggi, il che rende il risultato finale meno immediato e più pedante.
Jerichow aspirerebbe ad essere un dramma del destino, o meglio, cercherebbe di rivisitare il genere dell'opera da cui è tratto (Il postino suona sempre due volte) gettando nel mistero e nell'indecisione la vera ragione delle azioni dei personaggi: sono effettivamente spinti da pulsioni individuali e da interessi particolari, oppure è la sorte che li dispone secondo un preciso calcolo in determinate situazioni e di fronte a determinati eventi? Da un lato il film può anche destare simile interrogativo (che non basterebbe a colmare in realtà l'interesse), dall'altro lascia ben pochi dubbi, anche perché se confrontato ad altri prodotti del cinema più contemporaneo che riflettono sul ménage a trois marito-moglie-amante (che poi è vecchio più del cucco, verrebbe da aggiungere), qui viene da apprezzare poco i due fedifraghi e non ci si sente minimamente scalfiti dall'antipatia che si prova nei confronti del marito cornuto che, dal canto suo, è un turco emigrato in Germania che non ha semplicemente sposato sua moglie, ma l'ha in realtà "comprata" ricattandola e convincendola a rimanere con lui perché in caso contrario lui avrebbe smesso di risanare il di lei debito, che ammontava a 142.000 euro. Consci di queste dettagliate informazioni, che tendono a (complicare? No, semmai) semplificare l'approccio problematico (perché a quel punto al marito può succedere qualunque cosa bella o brutta, soprattutto brutta, ma poco importa), minimamente gli spettatori possono risultare dubbiosi di fronte al comportamento del marito (che lentamente sa del tradimento ma prima elabora una serie di stratagemmi per spiare la consorte con l'amante e nel frattempo si propone benevolente nei confronti dell'amante stesso, che lavora per lui), di fronte al quale la buona memoria dei veri personaggi di Fatih Akin si agita e si ribella. L'interesse che pure rimane alto (il film, immanentemente, non annoia) è proteso solo a seguire una storiella come un'altra, senza guizzi né trovate, che si trascina nella maniera più piatta e fintamente espressiva fino a un finale che, nonostante tutti i rivolgimenti, può anche risultare prevedibile, e rovina inesorabilmente un film che si proponeva quantomeno sufficiente.

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