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An American Crime

Regia di Tommy O'Haver vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su An American Crime

di Marcello del Campo
8 stelle

 

 

Se qualcuno ha scritto fulmini e saette su Martyrs di Laugier, rinvenendo in quel tipo di cinema finto-estremo il massimo della nefandezza e insopportabilità visiva, farebbe bene a vedere questo film che costringe sul serio a voltare lo sguardo da un’altra parte, perché la vicenda (questa sì, reale e documentata) del martirio cui fu sottoposta la piccola Sylvia nella casa di Gerthy Baniszewski è davvero di un’atrocità inenarrabile.

Accolta insieme alla sorella Jenny nella famiglia di Gerthy che ha sei figli già da mantenere, Sylvia Linkens è eletta a vittima sacrificale dalla donna, una psicopatica, asmatica che fa uso massiccio di fenobarbital e altre droghe e dirige la truppa dei ragazzini con piglio autoritario.

I genitori di Sylvia e Jenny hanno affidato le bambine a Gerthy senza sapere che le stanno cacciando in una casa da incubo che costa loro venti dollari la settimana, né sanno che Gerthy, abbandonata dal marito poliziotto, è una malata di mente, afflitta da mania persecutoria, sanno solo che il loro mestiere di ambulanti circensi non permette che le due ragazzine possano andare a scuola regolarmente e stare stabilmente in una casa. L’occasione pare buona a entrambe le famiglie: a Gerthy che tira a stento a campare e ai Linkens di tenere le figlie al sicuro.

All’inizio della coabitazione in casa Baniszewski tutto sembra filare liscio, gli otto ragazzini sembrano andare d’accordo e Gerthy mostra un affetto materno rassicurante. Procedendo nel racconto, la realtà si manifesta per gradi in tutta la sua terribilità: le intricate vicende individuali di Gerthy e dei suoi figli, ricadranno come una colpa biblica sul corpo della piccola Sylvia in un crescendo di atrocità che raramente il cinema ha mostrato. Dico “mostrato” perché non sempre il film mantiene il giusto equilibrio tra il lasciare immaginare e il rappresentare con una certa morbosità le torture inferte sul corpo della piccola martire.

Molti anni fa Guido Aristarco scrisse un interessante argomento sul tema della “tenerezza della storia” e rifletteva come l’osceno (alla lettera “ciò che è fuori della scena”) nei grandi registi sia tenuto fuori dalla storia: prendiamo Mouchette di Bresson, il regista narra la storia di un’altra piccola martire, ma lo fa con una tenerezza che nulla concede allo spettacolo della crudeltà, mentre fa appello alla nostra mente di spettatori perché dilaghi entro i confini dell’osceno.

Tommy O’Haver non è Bresson e dopo un primo tempo di buon cinema di denuncia, apre il sipario a scene di rara efferatezza, rovinando un’opera d’indagine sulla ferocia che si esercita sui corpi dei bambini.

An American Crime si raccomanda comunque per la capacità con cui, indagando un microcosmo malato come quello del piccolo borgo dell’Indiana di quarant’anni fa, illumina vicende che somigliano alle cronache attuali sulle “cantine” che racchiudono orrori. Non solo: il film ha un altro merito, mette in luce come da un microcosmo siffatto, l’obbedienza a ordini ostentatamente violenti e l’incapacità di ribellarsi a essi, sia stata la radice di altre “cantine” dell’orrore, cantine grandi come fabbriche sui cancelli delle quali era scritto: “ARBEIT MACHT FREI”.

La regia di Tommy O’Haver sembra indecisa tra il ritratto di ambiente e un cinema della crudeltà, ma è convincente in entrambi i casi, con i limiti che ho sopra indicato. In più è molto bravo nel dirigere gli attori: Ellen Page, nonostante la giovane età, porta su di sé tutto il peso del film con commovente determinazione. Catherine Keener, attrice duttile, intelligente, si presta a una performance di grande professionalità che la accomuna, senza esagerare, alla Bette Davis del “cinema con le rughe”: nonostante non abbia trucco e sia ancora bella, riesce a fare paura.

 

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