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Borat - Studio culturale sull'America a beneficio della...

Regia di Larry Charles vedi scheda film

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La recensione su Borat - Studio culturale sull'America a beneficio della...

di ROTOTOM
2 stelle

Road Movie americano sui generis alla ricerca dell’icona del nulla Pamela Anderson da parte di Borat, giornalista Kazako inviato dal suo governo a raccontare il modello di vita “del più grande paese del mondo”. Sacha BAron Cohen, alias Ali G, alias Borat attore inglese inventa così dal nulla un film che non è un film, un documentario che non è documentario, inchiesta divisa tra scherzi da candid camera, interviste imbarazzanti e momenti di riempimento messe lì a coprire il tempo necessario per una durata commerciale della pellicola. Lo scherzo sarebbe quello di spacciare un finto giornalista come vero a solleticare le pulsioni americanoidi degli ignari intervistati, borghesi compunti, femministe militanti, patrioti virili e così via contando sull’effetto deflagrante della diversità culturale del giornalista prodigo di gaffes e di luoghi comuni, verso il quale l’americano medio ha come insegnato, la deferenza politicamente corretta che spetta alle minoranze, prodigo di consigli per aiutare il piccolo Kazako ad orientarsi nella madre America, ingessato dalle convenzioni, avviluppato dalle regole, sconvolto dalla mancanza di esse da parte del candido giornalista Borat, ossessivamente cordiale e tattile nella ricerca del bacio di benvenuto, genuinamente razzista, candidamente maschilista, inconcepibilmente libero da qualsiasi remora animalista, volgarmente sessista, corporalmente privo di qualsivoglia vergogna, sentitamente antisemita. Egli fa credere di vivere in uno sperduto villaggio kazako con la sorella 4° miglior prostituta del paese con tanto di premio, in compagnia di un fratello handicappato, in cui si convive con lo stupratore del paese, portatore sano di discutibili tradizioni kazake. Così ci si imbatte in una serie di siparietti veramente divertenti e azzeccati (la riunione con le femministe; alla cena dell’nsegnate di bon ton; ospite di una televisione locale) in cui le caratteristiche dell’ingenuo Borat provocano nell’intervistato reazioni di disarmante comicità. Altri in cui francamente la volgarità fine a sé stessa la fa da padrona e non risulta chiaro se il preso in giro sia l’intervistato o lo spettatore. Documentario girato alla Michael Moore, Borat vuole essere un punto di rottura nella crosta del perbenismo convenzionale del popolo Americano e a volte è proprio così, facendone risaltare i veri atteggiamenti razzisti e sessisti di una nazione oppressa ideologicamente, altri brevi momenti invece insinuano il sospetto che al di là della prima reazione di sgomento della vittima predestinata la scoperta dell’inganno abbia necessariamente imposto lo stop alla ripresa. Tutto sommato un film (?) abbastanza stupido la cui idea di base poteva essere sfruttata molto molto meglio e col senno di poi non risulta essere neppure tanto cattivo come millantato dalla pubblicità che l’ha preceduto, dopotutto l’espediente di inserire un elemento di disturbo in una società o una situazione ben codificata per vedere l’effetto che fa è un escamotage vecchio come il cinema stesso, operazione questa che al cinema e alla sua storia non aggiunge proprio nulla. Proprio la vacuità e la poca profondità del progetto ne hanno giustamente decretato il successo negli Stati Uniti, sempre pronti a farsi prendere bonariamente in giro quando questa presa in giro è sostanzialmente innocua e superficiale, così come il governo del Kazakistan in principio si incazzò non poco per le millantate orribili tradizioni che Borat propina come vere (e magari lo saranno pure) salvo poi soffocare la polemica tutta quando proprio per merito del film il turismo nel paese ha registrato un’inaspettata impennata. Alla fine tutti contenti, vuoi vedere che aveva ragione Borat?

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