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L'ultimo re di Scozia

Regia di Kevin Macdonald vedi scheda film

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La recensione su L'ultimo re di Scozia

di spopola
8 stelle

Un thriller trascinante e serrato che è anche una lucidissima, crudele riflessione sui meccanismi aberranti del potere e sulla sua fascinazione. Il “cuore di tenebra” dei nostri tempi dunque che ci fa comprendere quanto sia facile in certe circostanze “arrendersi alle lusinghe” e lasciare così inascoltata la coscienza.

Di fronte ai positivi risultati raggiunti con quest’opera (non una sorpresa certamente perché le qualità di Kevin MacDonald avevamo già avuto modo di apprezzarle con “La morte sospesa”), potremmo affermare senza tema di smentite che in questo caso “buon sangue non mente” visto che il regista ha ascendenti preziosi nel suo albero genealogico essendo nipote del grande Emeric Pressburger (e scusate se è poco!) anche se da solo questo elemento non sarebbe sinonimo di “eccellenza” visto che spesso parentele analogamente eloquenti e persino più “strette” e dirette, non si sono dimostrate ugualmente significative. Lo scarso interesse del pubblico – rilevabile dagli esigui incassi conseguiti che nemmeno l’oscar al protagonista è riuscito a rivitalizzare , per lo meno qui da noi - induce però con rammarico a fare amare riflessioni su quella che potrà essere davvero in futuro la “sorte” di quel cinema medio ma di qualità, impegnato ma al tempo stesso spettacolare e intrigante (con tutte le carte in regola insomma per “appassionare”) che una volta avrebbe avuto tutte le caratteristiche per essere coronato da successo e nel quale sembra invece non credere più nemmeno la distribuzione visto come è stata trattata questa pellicola, marginalizzata e relegata in posizioni di assoluto svantaggio, quasi di “invisibilità programmata”. E’ una considerazione che riguarda una grossa fetta di film anche spettacolari e importanti ma “con cervello” e idee che invece e contrariamente a quanto sarebbe stato auspicabile, pur se in misura diversa e con andamenti non del tutto confrontabili, hanno fatto ciascuno a suo modo “flop” proprio sotto il profilo dell’accoglienza, come il King Kong di Jackson dello scorso anno, il cui ritorno economico è stato notevolmente inferiore persino alla “qualità” del prodotto, o l’ottimo “The Prestige” che è stato uno dei risultati “artistici” più importanti e significativi fra ciò che è arrivato sui nostri schermi in questo ultimo periodo raccogliendo però solo le briciole di una programmazione natalizia che possiamo considerare da incubo, per quasi tutto ciò che proponeva in alternativa). Ma torniamo alla pellicola in esame, un thriller storicamente documentato, trascinante e serrato, che trae origine dal romanzo omonimo di Giles Foden, che “narra una storia” all’interno di uno sconvolgente evento politico che diventerà molto di più di una “cornice”, ma che vuole essere soprattutto una lucidissima, crudele riflessione sui meccanismi aberranti del potere e sulla fascinazione che lo stesso esercita: il potere e la sua seduzione dunque, ma anche la “minaccia” che rappresenta, elemento questo ancora più terrificante e aberrante per le conseguenze devastanti e devastate che ne derivano e che non consentono scappatoie o vie d’uscita. Il “cuore di tenebra” dei nostri tempi dunque (per citare Conrand e rimanere nel “grandioso”) ma messo a nudo e vivisezionato con impietosa determinazione per indurre non solo alla riflessione critica, ma anche alla analisi delle nostre pulsioni più profonde e nascoste per comprendere come sia facile in certe circostanze “arrendersi alle lusinghe” cercando giustificazioni impossibili per lasciare inascoltata la coscienza e impedire ai nostri sensi di colpa di sommergerci, fino a diventare in qualche modo “contumaci” passando dal ruolo della testimonianza degli eventi a quello della collusione, che è un “peccato” originale che ha attraversato spesso le nefandezze assolute del secolo scorso e che si perpetua ancora nella assurda e “passivamente accettata” quotidianità degli eventi di ogni giorno in troppe parti di questa terra martoriata. Ed è proprio sul tessuto “narrativo” che risulta importante il lavoro svolto da MacDonald, partendo da un personaggio che di per sé – oggettivamente – risulta fin troppo programmatico e strumentale (quello del dottorino scozzese protagonista e vittima) forse persino scarsamente credibile per la sua “inaccettabile ingenuità” se così vogliamo definirla – e concludendo il percorso con una soluzione “personale” alla “Fuga di mezzanotte” che potrebbe essere considerata fin troppo facile, certamente accattivante e necessaria, ma forse persino “altamente improbabile”. Lo sfondo è l’Uganda negli anni della feroce dittatura di Amin Dada per troppo tempo ignorata e “accettata” dall’acquiescente Occidente (anche in questo caso non del tutto innocente!!!) dai molti – troppi – scheletri dentro l’armadio da tenere occultati (e lo stesso dittatore rappresenta la “personalità” contrapposta, l’antagonista dell’ “eroe” con troppe macchie e altrettanta paura o “compiacente disinvoltura comportamentale” che dir si voglia, quasi la “cartina di tornasole” necessaria all’esplosione delle contraddizioni e del dramma). Lo sguardo della visione è quello dell’occhio del vecchio continente che filtra gli eventi catartici del “cammino intriso di sangue e di vittime” rappresentato dagli orrori della decolonizzazione africana (le responsabilità occidentali sono oggettive!!!) facendo loro assumere una dimensione molto vicina a quella della tragedia elisabettiana di ascendenza shakespiriana fra “violenza” e avventurosi colpi di scena intrisi di romantiche “passioni amorose” che rendono straordinario il risultato soprattutto sotto il profilo dello “studio psicologico comportamentale”. Il plot narrativo, di per sé abbastanza scontato e persino “poco originale”, racconta le vicende di Nicholas Garrigan (l’ottimo JamesMacAvory, un attore da tenere d’occhio con assoluto interesse prioritario) medico scozzese fresco di laurea alla ricerca di emozioni e di ideali, che raggiunge l’Uganda per un lavoro presso l’ospedale di una Missione umanitaria che un caso fortuito mette in contatto con il neo presidente di quel paese, il generale Amin Dada appunto, viene portato a corte quale medico personale dello stesso e finisce per diventarne l’acquiescente braccio destro del dittatore e, in tale veste, (in)consapevole testimone delle efferatezze del suo regime. Si innamorerà poi ricambiato di una delle mogli del dittatore e sarà per questo travolto dagli eventi rischiando di finire a sua volta nell’anonimo e crescente numero delle vittime di “quella ecatombe” stimata approssimativamente fra le 300.000 e le 500.000 unità complessive. Detto così, può risultare persino “semplicistico” e “scontato” il percorso, ma è l’atmosfera quella che conta, il coinvolgimento emozionale con il quale si riesce a inchiodare lo spettatore grazie alla drammatica energia della progressione degli eventi a fare la differenza e a consentire di centrare con esattezza il bersaglio attraverso la costante “sensazione di pericolo” - che è uno degli elementi peculiari - resa spesso tangibilmente palpabile e che aleggia implacabile in un alternarsi di “luci ed ombre” (eccezionale il contributo della fotografia a volte fredda, altre fortemente arroventata, ma mai realisticamente “documentaria” o “sciatta” di Anthony Dod Mantle) fra sequenze brutali e “disturbanti” difficilmente sostenibili (più che quella della tortura, la scena nell’ospedale) e altre più poeticamente affascinanti (il party notturno o anche l’ultimo “tentativo” di contatto con la moglie del dottore della missione – una intensa, quasi irriconoscibile Gillian Armstrong - intravista dietro i vetri di un autobus ormai irraggiungibile quando ormai tutto sembra essere davvero perduto). E la tesi, il “discorso morale” sul potere e la sua forza dirompente che si allarga a macchia d’olio “corrompendo” troppo spesso anche chi avrebbe dovuto essere esente da simili tentazioni inconsce non risulta un “compromesso esterno”, un pistolotto programmatico, ma emerge implacabile e diretta proprio attraverso le immagini, acquisisce la necessaria “tragicità” dalla rappresentazione delle numerose figurine piccole e grandi che animano il contesto, magari descritte con pochi tratti “illuminanti” ma sempre senza manicheismi o banalizzazioni, tutte ugualmente messe a fuoco, nessuna delle quali inessenziali, o peggio “inutili” o aggiuntive, e questa è la vitalità centripeta che si sprigiona da una pellicola capace di farci dimenticare con il suo andamento vorticoso persino certe “ovvietà” in un crescendo dinamico che non lascia respiro. Giganteggia sullo schermo Forrest Whitaker, “istrionico” e veritiero nel presentare a tutto tondo le sfaccettature di un personaggio paranoico e brutale (ma non solo) che riesce a far “percepire” persino il fascino perverso della sua personalità carismatica, andando ben oltre la “storicizzazione dell’icona”. Oggettivamente (e necessariamente) più in sordina, la prestazione di McAvory che riesce comunque a tenere testa a tanta dirompente vitalità e a non “sfigurare” (una impresa titanica ma vinta con pieno merito) mettendo in evidenza una sensibilità interpretativa e un talento indiscutibile e assoluto. Di ottimo livello anche la sceneggiatura di Peter Morgan e Jeremy Brock che riesce ad amalgamare perfettamente la parte prettamente documentaria (si avverte l’ottimo lavoro di “ricerca” fatto dal regista per “interpretare” e rappresentare con esattezza filologica il periodo) con l’elemento prettamente romanzesco che consente al film di assumere le dimensioni del thriller fra rocambolesche fughe e amori melodrammatici sullo sfondo di una delle tante – troppe – tragedie epocali che passano sotto l’indifferenza appannata dei nostri occhi distratti.

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