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La stella che non c'è

Regia di Gianni Amelio vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La stella che non c'è

di sandro49
4 stelle

“La stella che non c’è” di Gianni Amelio

 

“La stella che non c’è”, ultima fatica di Gianni Amelio, appartiene, a buon diritto, al genere dei “film di viaggio”.

I film di questo genere rispettano, sostanzialmente, uno schema ben definito. Dopo una premessa che illustra, o almeno accenna, il motivo che spinge a partire (un impegno, un richiamo, un’angoscia, un desiderio, una speranza), vengono sviluppati due itinerari paralleli: un itinerario fisico, che consiste nella scoperta o riscoperta di luoghi, ambienti, civiltà sconosciuti o dimenticati; e un itinerario psicologico, del quale l’itinerario fisico è al tempo stesso spunto e allegoria, che consiste in un percorso nella coscienza verso la chiarificazione del proprio io e del proprio rapporto con il mondo esterno.

 

Nel film di Amelio la motivazione del viaggio (la buonavolontà, da parte del manutentore di un altoforno acquistato da imprenditori cinesi, di consegnare agli acquirenti un componente da lui realizzato che risolve un pericoloso malfunzionamento dell’impianto) è molto (troppo) originale: e rappresenta un elemento forzato che allontana lo spettatore dalla vicenda fin dal suo inizio, e nell’arco di tutto il film denuncia la sua inconsistenza, rendendo problematica una compartecipazione emotiva.

 

Il viaggio attraverso la civiltà cinese è assai deludente: nel palese timore di dare al film una caratterizzazione politica Amelio si limita ad una descrizione sbiadita ed approssimativa, ridotta a frustranti luoghi comuni (il cinico pragmatismo dello straordinario e selvaggio sviluppo economico ed industriale contrapposto alla arcaica e generosa semplicità della gente). Il film “di viaggio” si ridimensiona in un film “di trasporto”, nel quale vengono snocciolate aride, insignificanti e ripetitive scene di puro trasferimento, variate soltanto nel veicolo e nel paesaggio circostante.

 

Ancora più deludente è l’itinerario psicologico, che non parte e non arriva da nessuna parte, per la evidente carenza della sceneggiatura nella costruzione del personaggio del protagonista. La definizione psicologica del manutentore si concentra e si esaurisce nella rappresentazione della sua ostinazione nel perseguimento dell’obiettivo: ma questa ostinazione, essendo sradicata da un contesto psicologico sufficientemente disegnato, risulta incomprensibile, insensata, e, in definitiva, insulsa. I momenti di rabbia, sconforto e tenerezza rimangono episodi marginali che non contribuiscono a costruire una fisionomia psicologica: sono “variazioni sul tema” su un tema che non è mai stato esposto. La interazione  da “straniero” che il protagonista dovrebbe avere con il mondo cinese non funziona perché il personaggio ci appare “alieno” ancor prima della partenza. E a dare ad esso contorni psicologici accettabili non contribuisce il personaggio “di appoggio” (la ragazza cinese), perché si tratta di un elemento patetico-convenzionale di ben scarso spessore.

 

Questa è la storia de “Il film che non c’è”. Resta misterioso il coro di entusiasmi intonato dai critici italiani; ma questo è un altro film: ed è un film che abbiamo già visto.       

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