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La stella che non c'è

Regia di Gianni Amelio vedi scheda film

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La recensione su La stella che non c'è

di ROTOTOM
4 stelle

Il foglio esposto all’ingresso del cinema che ne riassumeva la trama e forniva la critica allo spettatore ignaro declamava sicuro che “il cinema di Amelio è un cinema importante e questo film necessario”. Ogni cosa necessaria è brutta, dico io. La storia di Vincenzo Buonavolontà (Castellitto fa incetta di cognomi stravaganti nei suoi film, quasi che dovessero riassumere la funzione che il personaggio assume nella storia) che attraversa il mondo conosciuto per consegnare una centralina di un altoforno comprato dai cinesi è di quelle che già in partenza non stimolano un entusiasmo smodato. Questo però è solo un pretesto, il pretesto dell’uomo giusto che resta fedele alla propria etica, al proprio ruolo che ritiene importante e decide di rischiare in proprio per correggere quell’ errore che potrebbe causare gravi conseguenze agli altri e alla sua coscienza. E’ anche il pretesto per mostrarci un mondo diverso da quello che conosciamo, all’interno della Cina dei lavoratori grigi come il paesaggio immerso nella nebbia, nella fuliggine delle acciaierie nella cultura incomprensibile che riesce a malapena scalfire grazie all’aiuto di una giovane cinese, studentessa di italiano che l’accompagna per tutto il viaggio. E’ il pretesto per mostrare un mondo che cambia molto più velocemente di quanto si riesca a comprendere, con il vero e proprio inseguimento dell’altoforno venduto e passato di mano di fabbrica in fabbrica sempre più all’interno del misterioso paese cinese. E’ il pretesto per il solito cinema di Amelio, ridondante e pedante, legato indissolubilmente al tema, al contenuto del messaggio che di volta in volta decide di spiattellare sullo schermo bianco, sottolineando e annuendo compiaciuto in un’autoreferenzialità che non lascia spazio ad alcuna interpretazione. E’ tutto lì, documentaristicamente didascalico senza astrazione, senza sospensione narrativa. Amelio riempie i vuoti semplicemente, schiacciando i volti dei suoi attori in cerca di quell’espressione che deve dire tutto sopra il palesarsi della scena, ne strappa smorfie e lacrime, aggiungendo retorica su retorica, messaggio su messaggio, spiegazione su spiegazione. Segue un Castellitto come se fosse nella savana filmandolo mentre maneggia i cinesi, questi strani abitanti di un altro pianeta. Muove la sua protagonista cinese rigida come uno schienale di sedia e loro i soldatini si pongono davanti alla suburbia da inquadrare, al degrado da documentare, alla povertà da riportare a casa come simbolo di un concorso di colpa in quanto occidentale, da sfiorare l’autocommiserazione. Cartoline, personaggi su sfondi. Missione compiuta, la lezione è finita, la morale iniettata, la lacrima provocata, la risatina estratta a forza da un paio di siparietti di equivoca innocenza causa la precarietà della lingua. La stella che non c’è, quella che manca tra le cinque che compongono la bandiera cinese, è il cinema, la scintilla creativa, la scrittura, la rappresentazione di una condizione diversa. Non la sua neo realistico-ipocrita manifestazione. La Cina è sterminata, brulla, umida. I palazzi alveare ospitano 8000 persone l’uno. I tempi del lavoro e della vita sono diversi, inconcepibili, rassegnati alla precarietà della vita ma questa è la Cina come ce la farebbe vedere Piero Angela, non è merito di Amelio. Alla fine Buonavolontà porta a termine la sua missione, consegna il pezzo mancante ma a questo punto non gliene frega più niente a nessuno, neppure ai cinesi. Presentato a Venezia non ha vinto nulla, non a caso.

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