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L'imperatore di Roma

Regia di Nico D'Alessandria vedi scheda film

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La recensione su L'imperatore di Roma

di marcojes
8 stelle

Faticosamente girato nell’arco di cinque anni, “L’imperatore di Roma” è il film d’esordio di Nico D’Alessandria, cineasta indipendente della capitale. Presentato in pochissime sale e fugacemente in alcuni Festival, è stato in cartellone ad “Anteprima” 1989 di Bellaria. “Lo girai muto, in 35 mm, eravamo in tre, io, l’operatore Roberto Romei e Giuliana Mancini, lo sonorizzai dopo con le voci dei protagonisti, e lo montai personalmente. La pellicola era la più economica, la ORVO, che mi feci mandare dalla Germania Est. Con 6000 metri feci il film. Quando iniziai, il protagonista Gerardo Sperandini era internato all’ospedale psichiatrico di Aversa, dove il padre, maresciallo di polizia, lo aveva fatto rinchiudere andandosi a raccomandare personalmente dal giudice (“Per un po’ di tempo” - diceva - “perché si riprenda” - come ho raccontato nel film) e mi fu affidato dal magistrato di sorveglianza... Abbiamo vissuto insieme per 30 giorni, il periodo delle riprese, anche di notte perché era assolutamente rischioso lasciarlo da solo. Gerry, cioè Gerardo Sperandini, è morto di recente, 20 giorni prima di Vittorio Cavallo (il protagonista de “L’amico immaginario”, secondo lungometraggio del regista, girato nel 1994). Ogni tanto, o meglio spesso, mi vengono alla mente i loro gesti, i loro modi di fare, per esempio Gerry beveva la birra, era sempre come se suonasse la tromba...”.
II neorealismo tornò nel cinema italiano negli ultimi anni ’80 come un fantasma espressionista urlante al ritmo di rock (post-)punk nichilista, violento e “no future”, e “L’imperatore di Roma” ne è ancora un’emblematica imprescindibile testimonianza, che rappre-senta a tutt’oggi un punto di non ritorno per il cinema italiano e non solo. II film di Nico D’Alessandria è un’opera dura, perturbante, esistenziale, minimale, lucidamente cruda, dolente e senza concessioni, i dialoghi sono disincantati, scarni, le parole colpiscono graffiando per la crudezza ma sono sincere e credibili in quanto mimetiche, realistiche. In una dimensione post-utopica/apocalittica da “day after”, l’antieroe Gerry non è un personaggio, ma una rovina (umana) tra le tante, un instancabile fragile camminatore errabondo tra le rovine di una Roma oramai decaduta a ex città eterna, mortalmente e irreparabilmente ferita dalla storia e dal tempo. Come nel contemporaneo film di Greenaway “Il ventre dell’architetto”, Roma, vista secondo lo sguardo di un Dio esule, è il teatri-no, anzi l’arena circense per eccellenza della personale, laica Via Crucis del protagonista, dove “la patologia ci è risparmiata insieme al patetismo”. La corsa folle termina solo di tanto in tanto, quando di colpo finiscono le pile e di botto il corpo non si sorregge più e si affloscia dove si trova, oppure viene bloccato a forza su di un letto del manicomio o in carcere. Eppure Gerry non si piega alla normalizzazione, cioè all’accettazione di questa esistenza degradata, rifugge l’imprinting edipico proletario-piccolo borghese del lavoro, della famiglia, ribellandosi in nome di un diritto universale al benessere, e a qualsiasi costo, fosse pure quello della propria, comunque inevitabile, (auto-)distruzione. La rovina è totale, la riconciliazione una mera illusione da parrocchia o da vetero-materialismo positivista e/o marxista: Roma “è una città dura”, sopravvivere è un’impresa. Dopo aver cozzato con una realtà disumana, una natura spietata, indifferente e matrigna, ogni meta/ideale/desiderio assurge al rango di mera utopia e il presente, la quotidianità, si tinge solo di banalità, di vuoto, di assenza di tutto. L’esistenza, almeno per coloro che come Gerry percepiscono la realtà inadeguata rispetto all’ideale, qualsiasi esso sia, è l’experi-mentum crucis che falsifica la bontà di qualsiasi teoria o fede religiosa o laica fino a oggi elaborate e/o rivelate. Rimangono solo i proclami disperati, i desideri di trasfigurazione del mondo di un pazzo impotente e sofferente che, in un momento di delirio, si percepisce divinamente l’imperatore di Roma. Come verrà esplicitamente detto all’inizio del successivo film di Nico D’Alessandria, di fronte allo smacco esistenziale, alla desertificazione della propria vita, l’unico possibile rimedio contro un’infelicità insanabile sembra essere il dormire. Concetto identico a quello espresso da Bruno S. ne “L’enigma di Kaspar Hauser” (1974) di Herzog, e prossimo all’amletico detto di Shakespeare: “Morire, dormire. Nient’altro”.

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