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Shortbus

Regia di John Cameron Mitchell vedi scheda film

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La recensione su Shortbus

di spopola
8 stelle

Un affresco giocosamente cattivo sui traumi, le derive, le paure e la mancanza di certezze dell’America post-11 settembre, che ha la crudezza della verità e il coraggio di sfidare l’ortodossia imperante del perbenismo bigotto e dell’ipocrisia utilizzando un linguaggio provocatoriamente dirompente volutamente quasi al limite della pornografia.

Con “Shortbus” John Mitchell racconta “alla sua maniera”, esemplare e trasgressiva allo stesso tempo, i traumi e le derive, la mancanza di certezze e le paure dell’America post-11 settembre, ed è un affresco giocosamente cattivo quello che ci viene mostrato con la crudezza della verità che non ha timore di osare e di sfidare l’ortodossia imperante del perbenismo bigotto e dell’ipocrisia. Il linguaggio del regista è provocatoriamente dirompente, assolutamente privo di compromessi “abbellenti” e di orpelli che potrebbero in qualche modo “addolcire la pillola”: lui mostra le cose come sono, rompendo definitivamente l’ultimo vero tabù della nostra epoca (quello che ci spaventa di più e con il quale abbiamo maggiore difficoltà a confrontarci apertamente e senza remore perché è l’unica “verità operativa” che non permette sotterfugi o comodi nascondigli e ci costringe a mostrarci “nudi e indifesi” nell’intierezza della nostra essenza, e ci obbliga per questo a scrutarci – ed anche confrontarci - abbandonando paure o reticenze, fino negli angoli più nascosti e privati delle nostre pulsioni, senza sovrastrutture di comodo o falsi moralismi di facciata). Mitchell ha infatti l’inconsueto (ma non solitario) temerario pregio di “sdoganare” destinandola alle sale dei normali circuiti commerciali (ed è una “colpa” e una responsabilità che, sono certo, in molti, soprattutto da noi, non gli perdoneranno), la rappresentazione delle mutevoli forme dei rapporti sessuali, consumati e vissuti nelle loro multiformi variazioni che non escludono anche quelle ipocritamente predefinite come “perversioni”, ma che fanno parte invece della realtà operativa dei quotidiani rapporti fra i sessi e all’interno di questi - oserei dire che hanno radici profonde e inestricabili proprio “dentro questo tessuto” spesso negato ma oggettivamente e verosimilmente attendibile - con scene e situazioni spinte all’estremo che non è errato definire “hard-core”, perchè non “fintamente ricostruite” e rielaborate, ma realmente vissute in prima persona dai protagonisti delle varie storie che si intersecano fra loro. Ed è proprio la loro realistica “crudezza” a coinvolgerci emotivamente come raramente accade (e forse anche a spaventarci un poco,perché ci toglieì definitivamente i “ paraventi” reisidui dietro i quali stavamo riparati e al sicuro). Un cinema questo che non è semplice provocazione fine a se stessa come qualcuno vorrebbe farci intendere, ma capace invece proprio in virtù della sua onestà intellettuale, di “scavare nel profondo” delle nostre coscienze e di mettere allo scoperto “l’irraccontabile” (o meglio quello che la maggioranza non è disposta ad ammettere). Modalità questa che ricorda molto da vicino la poetica estremizzata delle pellicole di Bruce LaBruce, ma non solo (non a caso Mitchell è, insieme a Gus Van Sant, fra coloro che ha reso possibile la realizzazione di “Tarnation” di Jonathan Caoulette, un’altra pellicola che ha il coraggio di “superare i limiti” e con la quale “Shortbus ha molti punti di contatto, anche sotto il profilo delle “scelte stilistiche” e del linguaggio utilizzato). Duro e diretto, beffardo e giocoso, si insinua come un bisturi che viviseziona disgregandole, le larghe sacche della sessuofobia che ancora ci ammorbano l’esistenza e che in Italia, colonia Vaticana più di ogni altra nazione e territorio, sono molto più estese, ramificate e resistenti: è singolare che l’ossequienza al dettato di quel clericalismo bigotto che si potrebbe sinteticamente definire “del predicare bene e razzolare male”, abbia determinato un boicottaggio della pellicola che non ha eguali non solo qui in Europa ma - in questo caso – nemmeno nella puritana America che è spesso all’avanguardia in crociate di siffatta natura, con una grossa fetta di esercenti che ha posto il veto alla programmazione di “questo indecente e scandaloso documento”, creando di fatto una inammissibile censura di mercato anacronistica e pericolosa perché tende ancora una volta a colpire, attraverso la demonizzazione del sesso, le idee. Certamente “Shortbus” parla di rapporti sessuali, e li mostra anche, tra amplessi multiformi, fellatio, orgette multiple, rapporti sadomaso, orgasmi irraggiungibili, cunnilingus, vibratori triangoli e sberleffi irriverenti: racconta le incertezze di non conoscere o non voler ammettere le proprie effettive preferenze e le inibizioni latenti che spesso ci impediscono davvero di lasciarsi andare, non ha barriere omologate dal sistema nella rappresentazione di questa realtà di varie umanità (omo – lesbo – etero – sadomaso – di gruppo – voyeristiche o di autoerotismo narcisistico) ma è decisamente meno volgare (anzi non lo è affatto!!) della stragrande maggioranza di “porcate” che passa giornalmente più che in sala, sugli schermi della casalinga Tv, fra edulcorati ammiccamenti poco edificanti e sbracature inaccettabilmente “vergognose” . Il problema è che qui siamo indotti alla riflessione critica, “dobbiamo pensare”, ed è forse questo che atterrisce e genera rifiuto, determina una levata di scudi che pretenderebbe ancora una volta l’allontanamento obbligato delle nostre coscienze da questa prolungata seduta che potremmo definire psicoanalitica, perchè “Shortbus”, non è solo (o semplicemente) il trasgressivo locale notturno Newyorkese gestito dal travestito Justin Bond dove si ritrovano i personaggi della vicenda – giovani, adulti, uomini, donne- alla ricerca, più che di nuove esperienze sessuali, di se stessi, ma anche e più che altro, un “luogo dell’anima”, una palestra dove le umane debolezze, le solitudini e le insoddisfazioni, si incontrano e si individuano, si integrano e si definiscono, fino a confessarsi analoghe e corrispondenti, praticamente appartenenti ad entità “similari”, tutte della stessa tempra e con i “bisogni” omogenei, al di là delle differenze di casta, di sesso o di lignaggio, un universo spesso solitario che ha una disperata necessità, per provare finalmente a tentare di vivere, di essere popolato da persone disponibili a farsi riconoscere e accarezzare (persino “penetrare” all’occorrenza e non solo nel corpo). Una realtà forse ambigua e sfuggente ma concretamente veritiera, che fa riflettere seriamente sulla esigenza assoluta di integrarsi vicendevolmente per “esistere” (e quale modo migliore di farlo se non attraverso il sesso, in qualunque forma ed espressione?). Le luci della metropoli (la stilizzazione è straordinariamente efficace) si accendono e si spengono per un improvviso black-out così come si inseguono implacabili e ripetitivi gli alti e bassi della nostra esistenza: bui inaspettati ed esplosioni luminescenti che si ravvivano imperiose nell’esaltazione di un orgasmo forse solo immaginato, quando lo sguardo può diventare irridente e dissacratorio fino a rappresentare l’impossibile (come nella scena irresistibile e stupendamente dissacratoria del canto dell’inno nazionale in un deretano in attesa) sotto l’occhio vigile e disilluso della Statua della Libertà che domina dall’alto l’intero paesaggio irreale - quasi da cartoon – della “Grande Mela”, una “Libertà” mai profondamente tradita come nella contemporaneità delle nostre derive quotidiane, nello sbigottimento crescente e senza fine che caratterizza le esistenze del mondo intero dopo quella “fatidica data” che ha visto cadere con le torri gemelle, tutte le certezze acquisite, che potranno essere probabilmente riconquistate soltanto attraverso la disinibita e partecipata “contaminazione” dei corpi fra amplessi, carezze e masturbazioni senza restrizioni che rispettino e privilegino i propri personali bisogni eliminando tutte le “colpevoli vergogne” che ancora ci rendono titubanti, unica ed effettiva modalità disponibile e a portata di mano per ripristinare il contatto e con questo, anche il rapporto umano fra tante solitudini impaurite.

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