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Chuck & Buck

Regia di Miguel Arteta vedi scheda film

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La recensione su Chuck & Buck

di spopola
6 stelle

Chuck & Buck è un film del 2000 (data accreditata per quanto riguarda la sua uscita in sala) che non ha avuto una adeguata circolazione in Italia (cosa questa che gli ha tolto una buona fetta di visibilità), anche se è (credo ancora) facilmente reperibile in DVD  per Queer edizioni (ma a suo tempo fu persino distribuito attraverso il circuito delle edicole al modico prezzo di 7 euro nella collana “cinema” dell’Internazionale). L’edizione “video” è rigorosamente in lingua originale (il che non è un male, anzi!!!) ma con sottotitoli in italiano che la rendono accessibile a tutti. Non ci troviamo certamente di fronte a quello che si dice “un capolavoro”, ma a mio parere è in titolo avrebbe meritato per lo meno una maggiore attenzione da parte della critica nostrana (che invece sembra non averlo proprio “considerato”) e questo non solo per l’inusualità della storia trattata (o meglio, per l’angolazione particolare dello sguardo), ma anche per le qualità intrinseche di un “raccontatore” attento e insolito che varrebbe la pena di tenere in particolare evidenza, visto il panorama generale del cinema che ci circonda e che ci viene propinato. Regista della pellicola è Miguel Arteta, prezioso frutto di quella corrente di cinema indipendente americano che con un eccesso di “puzza sotto al naso” molti “commentatori” di casa nostra tendono a prendere un po’ troppo sotto gamba, stigmatizzandone più che il coraggio e le qualità, il “vezzi” e le “omologazioni”. Un titolo dunque totalmente boicottato dal mercato, nonostante che il film si sia fatto valere e apprezzare in molte rassegne internazionali (ovviamente dedicate a quel… cinema indipendente tanto – e troppo spesso a sproposito - deprecato con sufficienza esasperata) come il Sundance Film Festival e l’Indipendent Film Award, vincendo “persino” alcuni premi.
Scritto e interpretato da Mike White, abituale collaboratore di Arteta (insieme hanno realizzato anche la successiva opera del regista, “The Good Girl” del 2002 con Jennifer Aniston, Jake Gyllentaal e John C. Reilly), è un delicato e insolito ritratto di un uomo (ragazzo?) che si rifiuta di crescere (forse impaurito dalla sua diversità non metabolizzata) e tenta per questo di rimanere ancorato alle certezze dell’infanzia che improvvisamente, alla morte della madre, gli vengono a mancare lasciandolo sperduto e insicuro in un mondo alieno nel quale non riesce ad adattarsi.
 Buck ha da poco superato i trent’anni quando si trova privato delle sicurezze protettive che lo avevano in qualche modo difeso e preservato consentendogli di vivere in un universo tutto suo, mantenendo vivo e inalterato quel mondo infantile al quale si era ancorato con caparbia determinazione rifiutandosi non solo di maturare, ma anche di affrontare la vita. Tenta allora di “recuperare” quelle certezze per ritrovare “il senso delle cose”, riallacciano il rapporto col vecchio amico di infanzia Chuck, non più frequentato da moltissimo tempo anche a causa del trasferimento di quest’ultimo in un’altra città, al quale in anni ormai lontanissimi, lo aveva legato una appassionata relazione omosessuale non così infrequente in età preadolescenziali. Ma Chuch è cambiato (o almeno ha voluto cambiare): per lui gli anni non sono trascorsi invano e quel ricordo è lontano e opacizzato, volutamente dimenticato e occultato. Lui adesso è un irreprensibile, affermato uomo d’affari di discreto successo, impegnato nel campo della musica, ed è addirittura in procinto di sposarsi. Non ha quindi tempo da dedicare a quello spaurito reperto del suo passato sepolto che torna improvviso a perseguitarlo con sagacia e insistente determinazione, né voglia di rimettersi in discussione sotto il profilo sessuale come in qualche modo gli verrebbe richiesto, e risvegliare così inopportunamente quei fantasmi lontani esorcizzati con tutta la forza della sua determinazione. Tra la fanciullesca insistenza di Buck e l’imbarazzato rifiuto di Chuck che non desidera rinunciare alle sue scelte, il film indaga con delicato pudore, i legami maschili dell’infanzia non sempre procrastinabili nell’età adulta, e la negazione dell’omosessualità latente spesso volutamente rimossa, ma rappresenta anche al tempo stesso, il cammino di un sofferto processo di crescita “mentale” che Buck dovrà affrontare per poter “sopravvivere” (e lo farà con coraggio, grazie anche alla scrittura di favole per la scena teatrale, attraverso le quali rivivrà le esperienze e i rapporti di quel passato distante e le conseguenti contraddizioni) con un percorso che è anche (e soprattutto) di natura psicoanalitica. Ci sarà un necessario, ultimo incontro per consentire a Buck di “lasciare la presa” che suggellerà il rapporto con un’ultima nottata d’amore, quasi a chiudere il cerchio, catartico incontro di due corpi ormai lontani e incompatibili, necessario “contatto conclusivo di un sogno” perché la consumazione dell’atto permetterà per lo meno di fare morire l’idea, così che dopo, se non rigenerato – ma almeno consapevole – Buck possa finalmente trovare un piccolo pertugio attraverso il quale passare per riprendere un cammino individuale da troppo tempo interrotto, e tentare di “ricomporre” una vita da adulto, al di fuori delle ossessioni infantili, lasciando così finalmente libero Chuck di portare a termine le sue scelte “borghesi” di negazione.
Gli altri, efficaci interpreti accanto al già citato Mike White, sono  Paul Weitz, Lupe Ontiveros, Beth Colt e Paul Weitz.

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