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Fontamara

Regia di Carlo Lizzani vedi scheda film

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La recensione su Fontamara

di lamettrie
9 stelle

Bello spaccato di Italia degli anni ’30 del ‘900, ma immobile da secoli, almeno in montagna (come in collina e in campagna, ma peggio): è stato così per migliaia di borghi e milioni di persone.

Il romanzo di Silone offre un soggetto splendido, che è ovviamente il valore aggiunto del lungo sceneggiato (3 ore e mezza visibili anche su Youtube, anche se c’è la versione da 2 ore e 20): ignoranza, povertà, sottomissione, soprusi, amplificati dalla massima legittimazione della prepotenza che purtroppo in Italia abbiamo conosciuto, quella fascista. Commuovente per gli affetti umani, semplici ma autentici.

Quando alla taverna affiggono il cartello che dice che non si possono fare ragionamenti: «Non si può parlare di politica: né di tasse, di salari…E allora, non si può ragionare!», lamenta il memorabile protagonista Berardo, impersonato da un eccellente Michele Placido, che si sente rispondere: «Bravo, hai capito. Ma cosa te ne fai dei ragionamenti? Quando hai fame, te li puoi mangiare?»: tipica legittimazione popolare dell’inutilità del pensiero, purtroppo. Ben strumentalizzata dal regime.  

Eppure non è così falsa l’altra generica declamazione della sfiducia popolare: «Al governo sono tutti ladri». Chiara è la rappresentazione dei soprusi dei nobili, una tradizione secolare: deviano persino il corso del fiume, per rubare l’acqua alla comunità. Lì le donne vengono ingannate, e non è solo colpa loro se cono così ignoranti da farsi raggirare: «3/4 al podestà, e di quel che resta, i ¾ a voi. Così tutti hanno la stessa cosa, ¾ e ¾». A quella proposta il podestà, che così avrebbe i 12/16 dell’acque mente gli altri i 3/16, dice anche «Va bene, mi sacrificio io». E sui tempi della concessione: «50 anni sono troppi. 10 lustri vi vanno bene?»

I cafoni nella dignità sono molto sotto gli asini dei nobili, e molto sotto al nulla: tale è la consapevolezza che dicono di avere; purtroppo è storia dell’aristocrazia, dell’occidente e dell’umanità.  

Miseria poi porta alla lotta per la sopravvivenza, a individualismo e odio nella comunità. «I poveri sono uguali in tutto il  mondo… che mezzo hanno per sfuggire alle sciagure, alla disperazione? È il ricorso alla magia, alle fantasie miracolose». Qui s’innesta la polemica illuminista contro la religiosità popolare tradizionale. Per giustificare la fatica bestiale e l’ingiustizia immutabili, e disinnescare la giusta carica protestataria, il prete, noto leccapiedi del podestà da cui trae vantaggi, rabbonisce: «È stato Dio a dire: ti guadagnerai il pane col sudore della fronte». Allora la rabbia popolare non ha alternative che sfogarsi con l’invocazione a Dio: la donne urlano come delle possedute, tra il culto e la scaramanzia, ma sono state educate a fare così (mal-educate?), e illudersi che così le cose cambino. Ma solo a  illudersi, appunto, dato che delegano a potenze non visibili, ma senza cambiare le cose. Tutto viene ricondotta a una volontà divina per consuetudine, ma molto tracima, per l’ignoranza, dentro l’errore. Come il caso della stuprata che porta vergogna: non lotta concretamente per creare le condizioni politiche per far punire i rei e affinché tali reati non avvengano più; la sua unica alternativa è quella della tradizione, andare in pellegrinaggio. La sessualità è vissuta come colpa verso Dio.

Il film fa intravedere con tutto il raccapriccio necessario lo stupro dei fascisti: ma anche tutte le umiliazioni e violenze arbitrarie di cui si sono resi impunemente colpevoli, lì come in migliaia di altri casi nell’orribile ventennio. Chi non ha la tessera deve scendere dal treno, non può lavorare…

Chiara è pure l’esibizione dei metodi di (in)giustizia fascista, per far confessare colpevoli che non ci sono: torture, violenze, menzogne. Memorabile (e purtroppo non è certo solo un aneddoto letterario) è come ricattano il ragazzo per avvalorare un suicidio, al posto della verità, un omicidio da loro perpetrato (un classico di tutti i totalitarismi, di destra e di sinistra): alternative per il giovane sono l’ergastolo, se dice la verità, oppure il lavoro per lui e l’aiuto alla famiglia, se dice il falso.

«Per la prima volta un cafone non muore solo per lui, ma anche per gli altri»: questo  principio di solidarietà politica di classe è il vero messaggio di liberazione che consegna il romanzo/film. Il quale è arricchito dall’indicazione della necessità di leader buoni, punti di riferimento che trascinino tutti verso la giustizia: senza tali rari personalità, oggettivamente dai merito superiore rispetto alla media (anche per il coraggio con cui, isolati, pagano le gravi conseguenze cui sanno di esporsi), l’ingiustizia verso i molti è destinata a rimanere. La loro testimonianza è l’unico seme che porta frutti: anche se magari non sufficienti; o solo sulla lunga distanza in mezzo a frustrazioni e amarezze permanenti; o magari quando non si sarà più in vita per poterli vedere.

Recitano tutti bene: il livello è da film, non da sceneggiato tv. La mano di un valido regista come Lizzani si vede tutta. Sotto il profilo tecnico, non c‘è una piega, per recitazione generale e tutto il resto. Altri tempi: negli anni ’70 il servizio pubblico poteva ancora commissionare opere di livello come questa, ambiziose anche perché si misurano con un capolavoro letterario. Poi lo strapotere del capitalismo ha infettato sempre di più anche lo stato: l’immondizia commerciale e la chiusura della verità e del pensiero sono stati obiettivi raggiunti di politica (anti)culturale.

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