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Nostro pane quotidiano

Regia di King Vidor vedi scheda film

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La recensione su Nostro pane quotidiano

di spopola
8 stelle

“Nostro pane quotidiano” rappresenta in pratica la volontà di dare un seguito a “La folla”, anche se, singolarmente, ne rappresenta in pratica il suo rovescio, perché sostituisce e sovrappone al disperato sconforto disilluso di quell’opera, la concretezza di una positiva utopia che per certi versi adesso può lasciare abbastanza sconcertati. La realizzazione del film fu una sfida e una scommessa, tanto travagliato fu il percorso, ma rappresentava una necessità così profondamente sentita, che il regista, affinché la cosa potesse davvero concretizzarsi, caparbio e ostinato come lo era stato spesso anche in passato, non esitò a mettere in discussione la sua stessa esistenza, impegnando praticamente tutti i suoi averi, compresa la casa e l’auto, pur di riuscire a realizzare la pellicola (la censura per motivi di carattere strettamente ideologico, seppure espressa in forme indirette, esisteva anche in quegli anni!!! Ed era attiva ed implacabile come adesso, solo che era diverso il contesto, più semplici e lineari i rapporti, e tutto questo rendeva in qualche modo più facile – o meglio: possibile - “l’aggiramento degli ostacoli” nonostante tutto e tutti: bastavano piccole coalizioni, una distribuzione illuminata, ed era fatta…). Comunque, il sacrificio economico del regista, non sarebbe stato da solo sufficiente per assicurare una libera circolazione del prodotto (ammesso e non concesso che fosse stato in grado di portare a termine con le sue sole forze il “girato”) se non ci fosse stato il lungimirante apporto (molto di più di un semplice “sostegno” morale) di Charlie Chaplin che, riconoscendosi (e facendo proprie) con le concezioni politiche del discorso, si appassionò al progetto assicurandone già prima del completamento, la capillare distribuzione sui mercati attraverso la “sua” United Artists. A conferma della continuità del progetto rispetto a “La folla”, i protagonisti conservano anche qui i nomi del precedente lavoro, palese indicazione della volontà di voler “sviluppare” e mostrare in progress, queste vite proletarie costrette adesso a confrontarsi con le diverse implicazioni socio-economiche di un paese devastato dalla miseria e dalla perdita della certezza del lavoro. In mezzo c’era stato infatti il crollo dell’economia, tutto sembrava perduto e senza possibilità di riscatto, viste le condizioni disastrate nelle quali erano costrette a sopravvivere larghe fasce della popolazione, e forse proprio per questo Vidor avvertiva la necessità di suggerire soluzioni alternative che rappresentassero anche un invito alla speranza e un incitamento a lottare senza perdersi d’animo e abbandonarsi alle avversità, per riconquistarsi l’esistenza con soluzioni alternative comunque possibili e vincenti. Disoccupati e senza più certezze e radici per il drammatico periodo congiunturale che aveva messo in ginocchio la nazione, John e Mary lasciano la città e “la folla” per trasferirsi in campagna, occupando una fattoria sulla quale uno zio della ragazza aveva acceso un’ipoteca, “luogo ideale” questo - certamente non idilliaco, ma concretamente rassicurante e propositivo - che acquisirà la valenza simbolica del riscatto, diventando un rifugio per molti altri diseredati senza speranza che accorreranno a frotte al richiamo, fondando una cooperativa sociale per coltivare insieme, come in una comune, unendo forze e determinazione pragmatica, quella terra fatta propria e cogliere così i frutti del raccolto capaci di far intravedere di nuovo un futuro meno incerto e più tranquillizzante. Tutto sembra procedere a gonfie vele, l’iniziativa ha successo e la fattoria, grazie all’andamento positivo dei raccolti, viene riscattata. Le fila si ingrossano ancora: si uniscono nuove importanti presenze come Sally, approdata quasi per caso per un guasto alla macchina e rimasta affascinata più che dal progetto, dall’uomo che lo ha concepito, e Louie, un evaso braccato che, accolto senza preconcetti o pregiudizi, si accollerà l’onere della contabilità e saprà poi contraccambiare e riscattarsi pienamente, diventando una figura chiave per gli snodi del racconto, quando deciderà di costituirsi alla polizia perché la cooperativa possa incassare i soldi della taglia e riassestare in qualche modo le finanze, dopo che per una serie di circostanze negative, gli affari sono progressivamente naufragati e anche i viveri per una possibile sopravvivenza cominciano nuovamente a scarseggiare: la siccità (calamità ricorrente in molta cinematografia di quel periodo e non solo) è in agguato, sta bruciando la terra, e avrà conseguenze così devastanti, nonostante il sacrificio di Louie, che John, scoraggiato dall’imprevista avversità degli eventi che sembra perseguitarlo, di nuovo senza prospettive, sarà fortemente tentato di ammettere la sconfitta arrendendosi all’evidenza. Ma la costruzione di un canale di irrigazione realizzata con profetica intuizione a tempo di record in una sola settimana lavorando giorno e notte a costo di sacrifici disumani (scavano, disboscano, letteralmente “violentano” il destino senza tregua e riposo) consentirà l’arrivo dell’acqua agognata che rifeconderà quel terreno inaridito e restituirà la fiducia e il futuro. Come si potrà rilevare, la parabola è socialmente inappuntabile e singolarmente propositiva, ma certamente meno coinvolgente per emotività e coinvolgimento sensoriale, di quella de “La folla”, e anche la rappresentazione è più lineare, lascia meno spazio alle scene da antologia - quelle che rimangono impresse nella memoria e fanno la “storia”, per intenderci - che invece erano molto frequenti nel precedente capolavoro del regista (basta consultare una qualunque storia del cinema per rilevarle, tanta importanza hanno avuto nello sviluppo del linguaggio cinematografico). Qui c’è forse più coerenza formale, maggiore “stilizzazione”, ma meno “guizzi” autoriali, tanto che la scena di maggior impatto visivo, davvero “forte e suggestiva”, un’altra sequenza che farà scuola e proseliti, è proprio (e solo) quella potentemente epica dell’arrivo delle acque sul terreno crudo e riarso dopo il lungo e faticoso lavoro di scavo, “un poema sinfonico” di eccezionale grandiosità, quasi mitico per costruzione e struttura, senza dimenticare le ardimentose acrobazie della macchina da presa. “I GIOVANI NON IMMAGINANO CHE COSA FU LA CRISI AMERICANA DELL’INIZIO DEGLI ANNI ’30, CON LA DISOCCUPAZIONE, LA DEPRESSIONE, LE MARCE DELLA FAME. HO QUINDI VOLUTO RAPPRESENTARE I DUE PROTAGONISTI COME UNA TIPICA COPPIA AMERICANA CHE VIVEVA QUESTO DIFFICILE PERIODO INGEGNANDOSI PERE CERCARE DA SOLI SOLUZIONI CHE LE ISTITUZIONI NON POTEVANO FORNIRE”. Così scriveva Vidor a proposito di questo progetto difficile ma profondamente “sentito” e voluto, nella sua biografia uscita agli inizi degli anni ’50, evidenziando poi, ancora più avanti, proprio quelle difficoltà abissali che aveva dovuto superare, dovute alla “negazione del credito” e alle pretese (ostinatamente respinte) di fornire finanziamenti “solo” a condizione di “pesanti” modifiche strutturali del soggetto che ne avrebbero snaturato il senso. Insomma è proprio il caso di dire “volli, fortissimamente volli” ed è anche per questo che nonostante il minore “impatto”, “Nostro pane quotidiano”, questa rappresentazione idealizzata della vita rurale, contrapposta alla città “portatrice” di miseria e di conflitti (è qui, nei territori aperti della prateria, su quella terra duttile e feconda grazie al duro lavoro dell’uomo che Vidor costruisce il suo Eden personale, in assoluta e completa antitesi con la disumanizzata, allucinata, frenetica vita della città che tutto stritola senza pietà) resta comunque un “grande” film. Può sembrare una contrapposizione un po’ troppo manichea e semplicistica, quella ipotizzata con quest’opera, ma dobbiamo ovviamente riportarci al periodo storico e alle concezioni “idealistiche” dell’autore, e allora sicuramente sarà difficile storcere la bocca. Lo stile si riconferma quello diretto e immediato, privo di orpelli (ma certamente meno visionario del solito) che ha reso grandioso e importante, una insostituibile pietra miliare, King Vidor qui alle prese con una storia forse non sufficientemente “persuasiva” con quella rassicurante chiusura positivista, una volta tanto non imposta dalla produzione e quindi subita, ma caparbiamente ricercata dall’autore come un sotterraneo, necessario, sincero invito (quasi un incitamento) a tornare a credere al “sogno americano” infranto.

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