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9 vite da donna

Regia di Rodrigo García vedi scheda film

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La recensione su 9 vite da donna

di Cricra
8 stelle

9 VITE DA DONNA
di Rodrigo Garcia

9 storie di donne chiuse dentro 9 diversi microcosmi, raccontate con raffinata introspezione e sensibilità dall’autore.
Il film è concepito in 9 diversi blocchi o quadri narrativi, che ricordano la suddivisione in sequenze di una nota vecchia, ma ancora attuale, pellicola godardiana: “Vivre sa vie”.
Queste storie, che si incrociano soltanto per la riapparizione di alcuni personaggi in più scene, in realtà, presentano un nesso comune che è rappresentato da una prigione fisica o simbolica in cui le protagoniste si trovano a vivere. Il regista scandaglia i drammi interni di queste donne psicoanalizzandole con l’aiuto della macchina da presa che come una lente di ingrandimento ci mostra tutte le loro angosce, sofferenze, ossessioni.
I rapidi movimenti di macchina da un personaggio all’altra e le inquadrature che tagliano perfettamente i volti, quasi fossero una radiografia dell’anima, sono un sapiente mezzo per condurre lo spettatore “dentro” il dramma di ciascuna
Ogni protagonista è impossibilitata a realizzare qualcosa; vive nell’assenza di ciò di cui ha veramente bisogno, a cominciare da Sandra, che sta scontando una pena in carcere, che non può neanche permettersi di avere un semplice colloquio con la figlia a causa di un mal funzionamento del microfono.
Dal carcere “fisico” di Sandra, il regista ci mostra un’altra prigione simbolica; quella del claustrofobico supermercato dove, come in una sorta di labirinto di Dedalo, la protagonista, Diane, interpretata da un’intensa Robin Wright Penn, continuerà a girare nervosamente a vuoto senza saperne il motivo.
E’ come intrappolata in quel luogo dopo l’incontro con il suo ex, Daniel, che, aprendole completamente il suo cuore, la tormenterà, lasciandola sola a combattere con dei sentimenti ancora vivi, che non riesce più a soffocare.
Gli stessi ricordi del passato che bruciano ancora, sono al centro della sequenza di Holly, che vive sempre legata alle catene di un passato infelice vissuto con un padre assente ed egoista.
La prigione, per Holly è la casa del padre, dove non riesce a stare neanche un secondo senza lasciare, perlomeno, uno spiraglio aperto; l’unico momento “liberatorio” per la ragazza, è quello in cui esce per qualche istante in giardino, lasciandosi “cullare “ dall’altalena della sua infanzia, l’unico ricordo piacevole che le resta.
Sonia, invece, è prigioniera della sua ossessione per il fidanzato, di un rapporto oramai logoro, senza più alcuna prospettiva futura, e dal quale cerca di ricavare, invano, ancora qualcosa.
Samantha, allo stesso modo, accetta, anzi, sceglie di vivere nel “carcere” delle mura domestiche, con un padre costretto sulla sedia a rotelle ed una madre che la spinge a partire per un college lontano, dove poter costruirsi una nuova vita .
Sammy rappresenta il trait d’union nella comunicazione tra il padre e la madre e, completamente investita di questo ruolo, sente con serena e matura rassegnazione che quella casa-prigione è il posto in cui deve rimanere.
Lorna , donna dura, determinata e concreta, vive temporaneamente in una sorta di prigione onirica, al funerale della moglie dell’ex marito, dove tutti i presenti sembrano puntarle gli occhi addosso.
E’ l’ex marito che la libera dall’incubo, portandola, dopo una fuga estenuante per i meandri della villa, in una stanza in cui le confessa il suo mai sopito amore.
L’autore ci dimostra, nuovamente, come l’amore si alimenti nell’assenza, nella lontananza.
Lo stesso spazio claustrofobico ritorna nella stanza dove Ruth trascorre i suoi fugaci momenti d’amore con l’amante-poliziotto.
Anche in questo caso l’ambiente si carica di una duplice valenza; da una parte rappresenta una fuga dalla routine per la donna, e dall’altra, diventa un luogo opprimente, in cui Ruth, sopraffatta dal ruolo di madre e moglie-infermiera non riesce mai ad abbandonarsi completamente.
Dalla squallida stanza in cui si parla della contraddittorietà dell’animo di Ruth, il regista ci trasporta nella camera d’ospedale in cui è ricoverata Camille.
La stanza dell’ospedale diventa la “gabbia” in cui Camille sfoga, con dei comportamenti isterici, tutte le sue ansie, paure, tormenti interiori che l’uomo che le sta accanto sembra non riuscire a comprendere, con il suo atteggiamento perfettamente pacato ed equilibrato.
Camille non accetta il dolore, così come, nella sequenza successiva girata nel cimitero, la nonna di Maggie, interpretata da una Glenn Closae perfettamente calata nel ruolo, non accetta la morte; tanto che esorcizza questa paura organizzando una sorta di pic-nic con la nipote Maggie, davanti alla tomba del marito.
Maggie, che la subissa di domande sulle tombe e sui morti, rappresenta l’ingenuità, la naiveté, lo sguardo vergine e la libertà da ogni tipo di brutto pensiero o preoccupazione.
Con quest’ultimo ritratto femminile, il regista mette in risalto la contrapposizione tra due diverse fasi della vita di una donna: l’infanzia e la vecchiaia; simbolicamente, l’alba ed il tramonto dell’esistenza umana.
E con l’ultimo squarcio su uno spazioe esterno, lontano dalle tante forme di prigione presenti nei precedenti blocchi narrativi, egli ci rimanda ad un qualcosa che evoca l’apertura, la libertà, o persino ad un aldilà.
E’ per questo che l’opera appare come una sinfonia musicale dai tratti filosofico-esistenziali, una sorta di dissertazione di tipo metafisico sui grandi temi dell’universo: la vita, la morte, l’amore, la sofferenza, da cui troppo spesso il cinema tenta di allontanarci.

Cristina Battigambe

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